Nella politica italiana esistono tanti “sistemi” quanto sono i consolidati equilibri di potere che si radicano negli anni attorno a un leader. Su tutti, c’è stato il ventennale sistema Berlusconi, con i suoi addentellati locali. Uno era in Veneto: il sistema Galan, in auge dal 1995 al 2010 portando sugli scudi Giancarlo, detto il Banal Grande, l’ex manager di Publitalia dominus forzista per un quindicennio buono. Poi è stata la volta di Luca Zaia, il leghista dal volto umano. In questi giorni, un’intercettazione resa pubblica nella puntata di Report di lunedì 2 gennaio 2023 lo ha messo al centro di una furiosa polemica con Andrea Crisanti, il microbiologo oggi senatore del Pd che sta valutando vie legali, non avendo gradito lo sfogo telefonico del governatore ai tempi dell’esposto contro di lui da parte della sanità veneta. Ma di querele, Zaia o la Regione da lui guidata ne ha sporte varie, negli anni. Uno che è stato querelato è Carlo Cunegato, uno dei portavoce del “Veneto che vogliamo”, la lista civica di centrosinistra. Zaia in persona lo accusava per un post su Facebook del dicembre 2020 in cui Cunegato si chiedeva come mai, durante la “seconda ondata” del Covid, il Veneto restasse in zona gialla avendo più morti di tutte le altre zone d’Italia. La querela è stata archiviata due mesi fa, ma secondo Cunegato non c’è da rallegrarsi: “Zaia mi accusava di campagna quotidiana per screditare il lavoro della Regione, addirittura di aggressione, arrivando a citare persino l’uso della formula ‘Zaiastan’. Ma il legittimo diritto di critica non può essere considerata un’aggressione. Da parte sua c’è un utilizzo metodico delle querele”.
Querelare sposta la discussione in tribunale. È un metodo.
Sì, perché alla fine ne esce sempre vincitore comunque, e per un motivo molto semplice: lui denuncia usando i soldi pubblici, cioè con le tasse dei cittadini, e i cittadini devono difendersi pagandosi l’avvocato di tasca propria. Non spende mai un euro di suo, e così facendo ottiene senza fatica l’intimidazione delle voci critiche, che vengono tacitate. Che sia direttamente lui o qualche organo regionale, il risultato è quello. Il caso Crisanti, in questo senso, è paradigmatico. L’esposto contro di lui era ridicolo, quasi assurdo, perché in realtà fatto contro uno studio scientifico pubblicato sulla più importante rivista internazionale, Nature. Il potere contro uno scienziato, una cosa che non si vedeva dai tempi di Galileo Galilei. Ma ricordo anche la querela, archiviata, contro Natalino Balasso, la denuncia contro Enrico Cappelletti del Movimento 5 Stelle e contro l’attivista Alberto Peruffo sullo scandalo dell’inquinamento da Pfas, o ancora, contro il giornalista Renzo Mazzaro, con il paradosso che Mazzaro, che ha raccontato in passato il “sistema Galan”, non è mai stato denunciato da Galan mentre ora sì (e anche nel suo caso, la querela è stata archiviata). Voglio sottolineare, però, che in tribunale non vengono trascinati solo nomi noti, ma anche cittadini comuni, ad esempio medici e sindacalisti da parte dei dirigenti delle Ulss, che sono nominati dalla Regione.
Nel caso di Crisanti lo scoop di Report ha riguardato le parole di Zaia, non indagato, estratte dalle intercettazioni per l’indagine che ha portato alla richiesta di rinvio a giudizio per Roberto Rigoli, ex coordinatore delle microbiologie del Veneto nel 2020, e di Patrizia Simionato, allora direttore generale di Azienda Zero. Intercettazioni, quindi, a differenza di quel che sostiene Zaia, pubblicabili, essendosi chiusa la fase istruttoria. Però in ogni caso non penalmente rilevanti, per quanto lo riguarda. Perché dovrebbe addirittura dimettersi, come avete chiesto come opposizione?
Perché da quelle parole si evince l’accanimento contro chi viene considerato un avversario. “Un anno che lo prendiamo di mira”, bisogna “portarlo allo schianto”: un’acredine che denota un’incapacità totale di accettare il dibattito politico.
Crisanti è diventato senatore quest’anno, due anni fa era un ex consulente del Veneto sull’emergenza Covid. Non era dibattito politico.
Ma pubblico, sì. Il punto è che Zaia non accetta le critiche o semplicemente le idee diverse.
Zaia sostiene che si doveva fare squadra nello sforzo collettivo sulla pandemia, e Crisanti invece andava sui giornali, cioè non sapeva fare squadra.
In realtà Zaia in quell’intercettazione si lamenta con Toniolo perché lo sta mettendo in difficoltà.
Per l’esattezza, perché Toniolo aveva subito scritto all’Università di Padova, a cui Crisanti faceva riferimento (e da cui si è dimesso proprio l’altro giorno), che non c’era nessuna denuncia.
Esatto. Non è che voleva far fuori dalla squadra Crisanti, voleva portarlo in tribunale.
Chi vorrebbe una stretta sul ricorso giudiziario alle intercettazioni e sulla loro pubblicazione a mezzo stampa, a cominciare dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sostiene che non si può estrapolare il parlato, che ovviamente è più sciolto e colorito nelle conversazioni private al telefono. Nello specifico, Zaia aggiunge che di solito lui si esprime in dialetto, mentre la trascrizione è in italiano. Non c’è nessun rischio di abuso sulle intercettazioni?
Distinguiamo due piani. C’è quello giudiziario, dove il garantismo, che nasce nella cultura liberale per difendere i diritti dei più deboli dai soprusi dei forti, da patrimonio storico della sinistra, almeno da Sacco e Vanzetti in poi, è diventato l’idea forte della destra da Berlusconi in avanti. Se prima le garanzie a difesa degli accusati dovevano difendere i deboli, adesso sono usate come una clava per difendere i forti. Per quanto riguarda la pubblicazione, le intercettazioni sono uno strumento importante per la trasparenza. Pensiamo al Qatargate in Belgio. Quanto al linguaggio, è ovvio che si dà sempre in un contesto, e figuriamoci se, da non puritano, mi scandalizzo se uno privatamente parla sopra le righe. Ma il tema qui non è al forma, è la sostanza, e cioè che Crisanti andava punito. La cosa gravissima è voler portare davanti ai giudici chi esercita la critica, che è nello statuto stesso della democrazia. È anti-democratico. Quanto al dialetto, beh… Zaia cerca sempre di cavarsela sviando. Ma l’uso del dialetto che effettivamente è interessante: è anche così che costruisce il suo storytelling da influencer. Si rende simpatico, e anche così giorno dopo giorno rafforza la sua tesi propagandistica di essere l’auto-rappresentazione del Veneto, mentre in realtà non propone una sua idea del Veneto.
È indubbio che Zaia sia molto bravo nel comunicare se stesso. Ma uno deve avere anche un prodotto da comunicare, no?
Il suo è presentarsi come “uomo del fare”. Non importa cosa, basta apparire come uno che “fa”. Così la politica diventa puro racconto, dalla conferenze stampa quotidiane in pandemia, ai due libri autobiografici pubblicati un anno dopo l’altro, in cui si dipinge come chi ha imparato la scuola della politica facendo il pr di discoteca, quando al contrario, fin da giovane presidente della Provincia di Treviso, ha sempre vissuto di politica. Attenzione, però: la sua anima profonda è democristiana, dorotea, estremista di centro. Significa che evita scientificamente ogni presa di posizione troppo forte, scansando i conflitti.
Resta un leghista, però.
Sì, si fa passare come il leghista gentile, il “leghista buono” in alternativa a quello cattivo, Salvini. Faccio un esempio. Nel 2019 c’è stato a Verona il Congresso della Famiglia. Chi partecipava lo faceva perché condivideva una visione del mondo precisa, patriarcale e contro i diritti lgbt. Bene, Zaia partecipa, ma per dire che la vera malattia non è l’omosessualità ma l’omofobia. Il gioco di equilibrismo è andare, ma smarcarsi, fare una cosa e dire il suo contrario.
Sarà per questo che piace anche a sinistra.
Purtroppo anche a sinistra si crede al mito del Veneto eccellenza in tutto. Diamo qualche dato, a partire proprio da lui: Luca Zaia trova il tempo di presentare i suoi libri, ma non lo trova per partecipare ai consigli regionali. Nel 2022 su 70 sedute lui era presente a 5. Ha votato lo 0,5% delle delibere. È un governatore che non governa, che fa solo marketing mentre i fatti evaporano. I fatti, invece, sono questi: 700 mila veneti (su quasi 5 milioni) non hanno il medico di base, 21 pronti soccorso ricorrono all’esternalizzazione, è la seconda Regione peggiore d’Italia per investimenti in salute mentale (e Dio sa quanto ce n’è bisogno dopo due anni di pandemia), le case di riposo sull’orlo del fallimento, gli stipendi medi sono bassi, a Treviso secondo la Cgil in media a mille euro per la fascia fra i 20 e i 30 anni, altro che miracolo del Nordest, siamo al bidone.
E allora com’è che Zaia passa come campione di efficienza?
Prenda la Pedemontana: doveva essere finita nel 2017, e nel 2023 siamo ancora qua. In quell’anno Zaia addirittura ricontratta il project financing accollando alla Regione il rischio d’impresa, e fa un appello ai Veneti perché, nonostante i pedaggi carissimi, la utilizzino. Una situazione maccheronica. In 8 anni il “cattivo” Stato era riuscito a costruire l’Autostrada del Sole, qui non si riesce a ultimare una superstrada di 94 km. Anziché essere criticato, però, viene lodato. Il problema è che abbiamo dei media tutti filo-governativi: gruppo Gedi, il Gazzettino di Caltagirone, i giornali di Confindustria a Vicenza e Verona. Le emittenti televisive hanno perfino ricevuto un finanziamento regionale di 2 milioni di euro. Lui è bravo a fare lo scaricabarile quando qualcosa non va e qualcuno osa fare una domanda critica (come durante la pandemia, quando le girava ai tecnici regionali), ma la stampa locale è tutta allineata, e quella nazionale si limita a riprendere quella locale. Tranne Report e qualche articolo de L’Espresso e del Fatto.
La sinistra, o per meglio dire il Pd e l’area anche mediatica di riferimento, fa un po’ lo stesso, non trova?
Certo, basta pensare a Fabio Fazio quando lo intervista a Tempo che fa, o a Repubblica, o anche alle regolari interviste sul Corriere della Sera. Quanto al Pd, c’è Stefano Bonaccini (candidato alla segreteria nazionale, ndr) che è accomunato con Zaia dall’aver sempre sbandierato l’autonomia come una riforma… non di bandiera. Anche lui si rappresenta come un politico pragmatico, un amministratore che sa “fare”, con un’ideologia impolitica per la quale il Pd, ad esempio, esaltava l’agenda Draghi. Ma così si rinuncia ad avere un progetto alternativo di società. Io lo chiamo “buongovernismo”: non ci sono più visioni del mondo differenti, per cui la sinistra dovrebbe essere per l’uguaglianza, la differenza è solo sul fatto che un politico sia educato o ineducato, urbano o inurbano, moderato o non moderato. Contano i toni, non i temi. E allora logico che poi, qui in Veneto, crolli al 15%, perché se la distinzione è sui toni e Zaia quelli sa interpretarli bene, i tuoi alla fine votano lui. Il modello dovrebbe essere invece la Spagna del socialista Sanchez e della ministra del lavoro di Podemos, che hanno introdotto il salario minimo a 1000 euro e reso gratuiti i viaggi in treno a breve e media distanza.
Non pare proprio il programma di Bonaccini, che sembra piuttosto essere lo Zaia di sinistra. Lo è?
L’Emilia-Romagna, forte anche di una buona amministrazione di 60 anni addietro, è sotto vari parametri molto meglio governata del Veneto. L’ideologia “buongovernista” non è solo di Bonaccini, ma certamente lui l’ha interpretata, e con Zaia si sono fatti i complimenti a vicenda, c’è un ammiccare alla retorica di quel tipo. Per parte mia, auspico che ci sia un cambiamento radicale nel Pd, con la presa di distanza dal neo-liberismo degli ultimi vent’anni.
La palude al centro.
L’errore della sinistra è stato abbracciare proprio l’idea di una politica neutra, di amministrazione apparentemente tecnica. E alla fine perdente.