Vergogna, senso di umiliazione, timore di non essere compresi. Questi sono solo alcuni dei sentimenti che aleggiano attorno a chi soffre di quelle che sono considerate delle “malattie invisibili”, che sono soprattutto quelle che riguardano il sistema nervoso. A squarciare questo velo è stata la cantante australiana Sia Kate Isobelle Furler, nota come Sia, che ha rivelato, all’età di 47 anni, di soffrire di autismo dichiarando: “Indossavo una maschera, avevo segreti e vivevo nella vergogna”. E aggiungendo un passaggio fondamentale: “Nessuno può conoscerti o amarti quando sei pieno di segreti e vivi nella vergogna”. Quest’ultima frase è tremendamente vera, perché chi soffre di certi disturbi senza parlarne o dare spiegazioni è costretto a vivere a metà, a fingere, a inventare scuse pur di non essere colto in flagrante, per il timore del giudizio e dell’incomprensione da parte del prossimo. I disturbi dello spettro autistico si manifestano in diverse forme, che riguardano la difficoltà nell’instaurare relazioni sociali normali, c’è chi usa il linguaggio in modo particolare, chi non parla affatto e ha comportamenti limitati o ripetitivi e spesso le persone affette da disturbi dello spettro autistico, hanno schemi comportamentali, interessi e/o attività limitati e seguono routine rigide.
Ci sono poi forme più o meno invalidanti di questa condizione, che ha una sua forma di espressione appunto molto vasta, ma ciò che ancora non è stato del tutto sdoganato è il poterne parlare liberamente. In Italia c’è la Fondazione Mente, fondata da Vanessa Bozzacchi e Manuele D’Oppido, che sono partite dalla storia del figlio Leone per cercare di sopperire alle mancanze che ci sono per chi soffre di problemi del neurosviluppo. Il fatto che una cantante così famosa si sia messa a nudo è importante perché dà la possibilità a tutti noi di interrogarci sul perché ci abbia messo tanto a esporsi, sull’uso della parola vergogna e sullo stigma che deve patire chi soffre di determinati disturbi. L’aspetto più triste è che se si chiede a qualcuno che ha un disagio simile quale sia la maggior sofferenza, quasi nessuno risponde che il disturbo in sé, bensì il problema, apparentemente insanabile, di relazionarsi con il mondo esterno. E quindi essere malati, soffrire, deve portarsi dietro altra sofferenza? A quanto pare sì, ma il discorso di Sia è forte, parla di liberazione, di rinascita, di quel senso di vita 2.0 che si ha dopo aver parlato.
Il problema, soprattutto italiano, è che se si parla di una sofferenza personale per provare a sensibilizzare, ci sono tutti quelli che sottolineano che è solo una trovata pubblicitaria, un modo per far parlare di sé, che non bisogna essere vittime. Chi soffre e sente il bisogno di parlarne, per sé stesso o per dire agli altri “anche io ci sono, siamo tutti sulla stessa barca”, dovrebbe mettere a tacere ogni forma di malsano chiacchiericcio che può venire in mente a persone totalmente prive di empatia. Nel nostro Paese sono pochissimi i personaggi famosi che parlano dei loro problemi (a differenza dell’America in cui è quasi all’ordine del giorno), perché abbiamo una mentalità chiusa, pensiamo ancora che ci debba essere una forma di pudore verso i propri disturbi, ma non dovrebbe essere così. Nessuno si deve sentire costretto a parlare, ma chiunque abbia anche solo un briciolo di voglia lo deve fare, perché un personaggio famoso che racconta la verità di una sofferenza logorante, purtroppo o per fortuna, aiuta molto più di tanti medici messi insieme. L’effetto che si viene a creare con il proprio beniamino, la quasi devozione nei suoi confronti, porta a vedere quel disturbo in modo diverso ed è per questo che ci dovrebbe essere un uso più consapevole dei social, in cui veicolare anche e soprattutto questi messaggi, perché chi è solo, chi pensa di non farcela, può trovare una spalla virtuale su cui appoggiarsi.