Leggi Blur e leggi Britpop. Per molti è così, ma è inevitabile. Quando una carriera invecchia, prima ti trasformi in un “legacy act”, poi, se ti va bene, la memoria collettiva – sempre meno incline a trattenere qualcosa che porti in profondità – finisce per ricordarti solo per la punta del tuo iceberg artistico. I Blur? Quelli di “Girls & boys” e “Parklife”. Questo il grande, ma quasi inevitabile, rischio. Quasi. L’alternativa è, come nel caso dei Blur, produrre sporadiche apparizioni. Sporadiche, ma sempre degne di nota. Inviando necessari segnali da un mondo lontano.
Per dire, negli ultimi 25 anni i Blur hanno esploso due colpi soltanto: il primo, anno 2003, intitolato “Think tank”. Il secondo, a salve, nel 2015, intitolato “The magic whip”. Ora tornano, a luglio, con il nuovo “The ballad of Darren” e un tour la cui scaletta è diventata oggetto di giocoso contendere fra i membri del gruppo (chi la stilerà? Che tipo di selezione proporre? Il dibattito ferve, con l’obiettivo di mettere in fila qualcosa che rappresenti i Blur di ieri ma anche quelli di oggi). Un album atteso perché Damon Albarn, fulcro creativo della band, negli ultimi anni – o come solista o con gli ultimi Gorillaz –, ha prodotto splendidi e ispiratissimi momenti pop. Un autore in stato di grazia, baciato da un istinto creativo raro e famelico. Atteso anche perché Graham Coxon, con il suo essenziale stile post-punk, si è rivelato un chitarrista sempre più intrigante, sorprendentemente disposto a forzare i confini del suo format di riferimento. E poi nel complesso – per tornare a una “reductio ad Britpop” – la musica dei Blur è invecchiata meglio di quella dei rivali Oasis. Il loro catalogo, visto da lontano, scintilla di una luce che brilla oltre l’orizzonte Brit di riferimento. E così, come antipasto del nuovo album, arriva questo “The narcissist”, squisita storiella avant-pop che ci culla e massaggia senza mai alzare troppo la testa. Due accordi ben arrangiati e via. Un quieto ritorno, il sound maturo di un gruppo di artisti in costante cammino, il sound minimale ed evocativo dei Blur di fine anni ’90, quando Albarn, Coxon e truppa si immergevano nelle invitanti paludi dell’underground americano e si aprivano, esplorativi, a ritmi diversi, quasi Kraut a tratti. Così “The narcissist” incapsula, in quattro minuti, tutto ciò che è bello trovare nei Blur di oggi: le malinconie di Albarn, un sublime controcanto pop, un sound solido ed evocativo. Al centro, un brano che riflette non tanto sulle derive narcisistiche della società contemporanea, bensì sulla sorte, talvolta amara, dell’artista-Narciso. Tutto chiaro già in apertura: “Guardavo nello specchio, vedevo tante persone, camminavo verso di loro, sotto i riflettori [..] Trovai il mio ego, provai rigetto”.
“The narcissist”, attraverso pochi versi, tesse una parabola che conduce – anche chi artista non è – a un condivisibile desiderio di pace psicofisica connessa all’amore. Il bello è che questa parabola, che copre una vita di esperienze, visioni ed esperimenti, si esaurisce in quattro limpidi minuti, quasi a consacrare, di nuovo, l’immenso potere di sintesi della migliore pop music. E il genio poco appariscente di Damon Albarn, probabilmente il miglior autore inglese di canzoni degli ultimi trent’anni.