Istituto Luce a reti unificate, siparietto di regime dedicato al tennista peccatore di cognome, Jannik Sinner, al cospetto del Condottiere del Consiglio, con tanto di selfie per piacere alla pancia di noi peones coi peli sulle spalle: o peggio ancora, dei così tanto vilipesi giovani, per il quale lui sarebbe un modello avanguardista acqua e sapone, visto che non si droga, non bestemmia, non fa il trapper, ma soprattutto è strabravo in qualcosa e stravince. E proprio sul più bello del cerimoniere, Lei, il Capoufficio di tutti noi minuscoli, dichiara tronfia e trionfante di aver visto la finale, senza accorgersi di ferire milioni di concittadini che non hanno potuto permetterselo. A dir poco una mancanza di tatto: specie se mossa da chi fa dell’appartenenza dal basso un valore ideologico e di immagine.
Non solo, quelli del tubo catodico di stato, dopo aver ignorato il match australiano, sarebbero ora disposti a pagare la comparsata del campione altoatesino a Sanremo, istanza caldeggiata dallo stesso onorevole Underdog. E quindi? I soldi per la finale, no: ma si troverebbero per la kermesse e tutto ciò che comporterebbe nello svilimento di un talento planetario, a carne da cannone nel nome dello share. Come sempre i principi si colgono spesso tra le righe dei dispacci. Anche se potrei rimarcare la scarsa competenza degli spin doctor e ghost writer di palazzo, per non parlare dei nichilisti che imbastiscono le perdenti retoriche dell’opposizione armocromista. Ci tengo comunque a precisare che il sottoscritto si è visto la finale per iscritto, dagli aggiornamenti online sul sito della Gazzetta, evocando i nostri avi segretamente su Radio Free Europe nei giorni del ’43. Vivo da cinquantotto anni in un Paese sempre più somigliante al Messico; il tricolore in comune c’è già, oltre ai narcotrafficanti: ma questa è l’Italia, una repubblica fondata sul consenso.