image/svg+xml
  • Attualità
    • Politica
    • Esteri
    • Economia
    • Cronaca Nera
  • Lifestyle
    • Car
    • Motorcycle
    • Girls
    • Orologi
    • Turismo
    • Social
    • Food
  • Sport
  • MotoGp
  • Tennis
  • Formula 1
  • Calcio
  • Volley
  • Culture
    • Libri
    • Cinema
    • Documentari
    • Fotografia
    • Musica
    • Netflix
    • Serie tv
    • Televisione
  • Cover Story
  • Attualità
    • Attualità
    • Politica
    • Esteri
    • Economia
    • Cronaca Nera
  • Lifestyle
    • Lifestyle
    • Car
    • Motorcycle
    • girls
    • Orologi
    • Turismo
    • social
    • Food
  • Sport
  • motogp
  • tennis
  • Formula 1
  • calcio
  • Volley
  • Culture
    • Culture
    • Libri
    • Cinema
    • Documentari
    • Fotografia
    • Musica
    • Netflix
    • Serie tv
    • Televisione
  • Cover Story
  • Topic
Moto.it
Automoto.it
  • Chi siamo
  • Privacy

©2025 CRM S.r.l. P.Iva 11921100159

  1. Home
  2. Attualità

Sono allo sciopero per Gaza di Torino, 20 mila persone, la pioggia e il ricordo del filosofo Gianni Vattimo: e ora il governo riconosca lo Stato di Palestina (come Regno Uniti e Francia). A chiederlo è “la meglio gioventù” d’Italia

  • di Leonardo Caffo Leonardo Caffo

22 settembre 2025

Sono allo sciopero per Gaza di Torino, 20 mila persone, la pioggia e il ricordo del filosofo Gianni Vattimo: e ora il governo riconosca lo Stato di Palestina (come Regno Uniti e Francia). A chiederlo è “la meglio gioventù” d’Italia
Sembra di essere nel film di Marco Tullio Giordana, “La meglio gioventù”: a Torino piove e 20 mila persone scendono lo stesso in strada contro il genocidio a Gaza. E il governo che farà? Ascolterà i cittadini che chiedono la pace? Quello che sta succedendo in tutta in Italia non è solo uno sciopero, ma qualcosa che va oltre Israele e ci riguarda da vicino. Perché, dai professori ai meccanici, per strada oggi ci sono davvero tutti…

di Leonardo Caffo Leonardo Caffo

A Torino piove, e come nel resto d’Italia c’è lo sciopero generale a sostegno della causa palestinese. Per tanto, troppo tempo, quelli della mia generazione hanno guardato con una specie di nostalgia di assenza di Storia il passato: non succede mai nulla, ci dicevamo, mentre scorrevamo dentro un eterno presente, un loop di immagini senza peso, senza conseguenze. Oggi, invece, sembra di essere dentro La Meglio Gioventù, il film diretto da Marco Tullio Giordana: quel turbine di ideali e delusioni, di corpi che si muovono in corteo non per un’astrazione, ma per unt tempo vivo, ferito, che chiede di essere la Storia che ci passa davanti. Migliaia di voci si fondono in un coro irregolare: un suono bagnato, questo: stivali che schizzano pozzanghere, ombrelli capovolti come bandiere improvvisate, e il ticchettio insistente delle gocce che sembra sottolineare, anziché smorzare, l’urgenza di quel “dal fiume al mare” che i ragazzi delle superiori gridano con una ferocia innocente. Ascolto i colori dei ragazzi delle scuole: sono un misto di “siamo tutti antisionisti” e “bandiera rossa”. Non sono sicuro che sappiano esattamente quello che stanno dicendo, ma è bello sentirglielo dire. 

Questa è la loro causa a prescindere dalla consapevolezza, un’intuizione primordiale che precede l’analisi, come il grido di un neonato prima del linguaggio. Vedere Torino così piena di bambine colorate dalle bandiere palestinesi – keffiyeh annodati intorno a trecce bagnate, stelle rosse che gocciolano su guance arrossate dal freddo – è in qualche modo commovente, un richiamo a quell’infanzia universale che la guerra nega, riducendola a macerie.

Ma commozione non è indulgenza. Questa manifestazione, parte di uno sciopero generale che paralizza l’Italia intera – dai porti bloccati a Genova ai sit-in sull’A1, passando per i taxi fermi a Roma e le navi ferme a Napoli – non è un esercizio fone a se stesso: finalmente.  È un’interruzione, un taglio nel tessuto del quotidiano che ci costringe a interrogare il tempo stesso che stavamo vivendo un po' da zombie temo. Per anni, la mia generazione – quella nata negli anni ’80, cresciuta tra il crollo del Muro e l’ascesa di internet – ha coltivato una malinconia per un’epoca eroica che non ci apparteneva. Leggevamo Calvino e Pasolini come reliquie, evocando le fabbriche occupate del ’68 o le piazze del ’77, ma vivevamo in un presente anestetizzato, dove la politica era un like su Facebook e la Storia un ricordo. “Non succede mai nulla”, ripetevamo, mentre il mondo accelerava verso derive invisibili: il cambiamento climatico come fantasma lento, le disuguaglianze come algoritmi opachi. Oggi, però, la Storia irrompe con la violenza di un temporale autunnale. Gaza non è un capitolo remoto di un manuale di geopolitica; è un presente che sanguina, un genocidio in diretta – come lo definiscono le piazze, con quella parola che pesa come un’accusa etica, richiamando le convenzioni di Ginevra violate in tempo reale. E noi, qui a Torino, sotto questa pioggia che lava via l’indifferenza, ci troviamo catapultati in un eterno ritorno nietzschiano, ma non come condanna: come possibilità. Torino è Nietzsche, e questo ci porterebbe lontano. 

Il corteo degli studenti a Torino
Il corteo degli studenti a Torino Ansa

Ricordo tanti anni fa, una manifestazione a sostegno della causa palestinese: era il 2010 credo, durante una delle intifade che sembravano eco lontane di un conflitto congelato. Io ero lì, insieme a Gianni Vattimo, maestro di via Po, da sempre schierato contro il sionismo – quella ideologia statale che, nella sua hybris espansiva, ha trasfigurato un’aspirazione legittima di autodeterminazione in un’occupazione perpetua. Ma Vattimo era attento, sempre, a non confonderlo col semitismo: “Il sionismo è un prodotto moderno, un nazionalismo tra i tanti”, diceva spesso, sorseggiando il vino coi ragazzi di Palazzo Nuovo invitati a casa, “non l’essenza dell’ebraismo, che è diaspora, erranza, quel nichilismo debole”. All’epoca eravamo molti di meno: un centinaio, forse, radunati sotto la Mole con cartelli fatti a mano, mentre il mondo guardava altrove, verso l’Iraq o l’Afghanistan. Nessuno di coloro che in quel momento non era con noi si poteva aspettare che un giorno la situazione degenerasse così – che un assalto armato evolvesse in un bombardamento sistematico, con oltre 40.000 morti contati dall’Onu, quartieri rasi al suolo come in un’esercitazione apocalittica. Ma noi lo sapevamo. Lo sapevamo con quella certezza profetica che non deriva da profezie, ma dall’ascolto dell’altro a cui educa la filosofia: quel “noi” che include il palestinese non come astratto, ma come volto – per dirla con Lévinas, quel volto che irrompe nell’orizzonte etico, imponendo l’infinito dell’alterità contro la totalità del medesimo. Vattimo, con il suo ermeneutismo debole, ci insegnava a leggere il sionismo non come destino biblico, ma come narrazione fragile, decostruibile, un testo che si può riscrivere. Oggi, ripensando a quelle piazze semideserte, vedo la continuità: la manifestazione di allora era un seme; questa, sotto la pioggia torinese, è un’eruzione.

Il corteo, forse per la prima volta vedo così tanta gente sotto casa mia a San Salvario, sembra davvero un catapultarsi nelle immagini della Torino del 1968. Ricordate le foto in bianco e nero: operai della FIAT che marciano con i nasi tinti di rosso, studenti che erigono barricate in corso Traiano? Oggi, è un’eco vivida, ma ibrida: non solo proletari e intellettuali, ma un’armata Brancaleone di corpi dispari. Attivisti bloccano corso Vittorio Emanuele II con corpi incollati all’asfalto, sfidando la pioggia e le sirene della polizia, mentre famiglie intere – madri con passeggini coperti da teli impermeabili, nonni con sciarpe rosse – si uniscono al flusso.  Riprendersi la piazza è un’emozione unica, un gesto collettivo: l’essere-qui che si rivela nel con-essere che interrompe l’anonimato. Sento i passi sul selciato bagnato, il rombo dei megafoni che tuonano “Libertà per la Palestina!”, e per un istante San Salvario – quel quartiere che ho visto mutare da bohemien multietnico a enclave gentrificata – si trasfigura. Nel paradosso: qui c'è il quartiere israeliano della città. Spazio generativo, questa mattina, dove il politico si fa poetico, dove il corpo collettivo riafferma la sua priorità sull’economia del flusso.

E sembra esserci tantissima gente – 20.000 solo a Torino, parte di oltre cento piazze nazionali – a sostegno di una causa che paradossalmente mette in discussione le stesse categorie delle possibilità per cui possiamo mettere in discussione quella stessa causa.  È una cosa complessa, questa: la Palestina non è solo un territorio conteso, un nodo geopolitico tra Israele, Iran e Occidente. È un enigma ontologico, un’interrogazione sul fondamento del vivere-insieme. Come possiamo invocare il diritto all’autodeterminazione per i palestinesi senza interrogare il nostro proprio Stato, che qui in Italia si vanta di essere culla dei diritti umani ma appoggia tacitamente un’occupazione che viola ogni carta internazionale? O, più profondamente, come conciliare l’antisionismo – questa critica al progetto sionista come forma di colonialismo settler – con il trauma dell’ebraismo post-Shoah? Vattimo lo diceva bene: è un’ermeneutica del sospetto, ma debole, che non totalizza, non esclude. “Dal fiume al mare” non è un incantesimo bellico, ma un’utopia laica: un invito a ripensare lo spazio mediorientale non come somma di Stati etno-nazionali, ma come oikos condiviso, una casa comune dove l’alterità non è minaccia, ma eccesso di senso. Eppure, la complessità ci spinge al paradosso: militiamo per una causa che decostruisce le categorie (nazione, sovranità, sicurezza) con cui militiamo. È il dramma del politico hegeliano, la dialettica servo-padrone capovolta: chi marcia oggi è servo dell’oppresso, ma nel marciare diventa soggetto libero.

 Lo sciopero per Gaza a Torino
Lo sciopero per Gaza a Torino Ansa

Tra i volti delle persone, riconosco amici di lunga data: il curatore del Museo di Arte Contemporanea, l'ex collega al Dipartimento di Filosofia dell’Università con cui discutevamo ore su Deleuze e il rizoma come modello per una resistenza non gerarchica; c’è la redattrice della ormai mia passata vita torinese che mi passa un volantino bagnato con un sorriso, il meccanico della mia moto con un cartello anomalo: “Basta bombe, dateci lavoro”. Questa causa riunisce davvero tutti – studenti, operai, pensionati – e ci dice qualcosa di interessante sul senso dell’essere qui adesso, in quelli che sono sicuramente dei tempi orribili ma interessanti. Orribili, perché intrecciati di guerre ibride: Gaza come laboratorio di droni e AI bellica, l’Ucraina come proxy di potenze nucleari, la pandemia come prologo a un collasso sistemico. Interessanti, perché in questo caos riscopriamo il senso della lotta e della militanza, quelle cause concrete che la mia generazione aveva un po’ perse, anestetizzata dal neoliberismo e dal culto dell’io imprenditoriale. È un ritorno al concreto: non astrazioni, ma corpi che marciano, voci che si levano, mani che si stringono sotto la pioggia. E in questo penso che il percepire non sia passivo; è un intrecciarsi di carne del mondo, dove il mio corpo si fa eco del corpo palestinese, ferito ma vivo.

Da Torino è sempre partita ogni rivoluzione italiana: pensate al Risorgimento, con i carbonari che complottavano nei caffè sotto la Mole; o al ’68, quando le lotte operaie della FIAT irradiarono il paese; persino il movimento ambientalista degli anni ’90 trovò qui le sue prime scintille, tra Val di Susa e No TAV. Come diceva Umberto Eco, Torino sarebbe la stessa senza l’Italia, ma l’Italia senza Torino non sarebbe proprio esistita. Oggi, in questo sciopero che blocca scuole, trasporti e porti – con rischi per taxi e navi, come annuncia la diretta nazionale – Torino non tradisce la sua vocazione Il corteo si snoda da Arbarello verso il centro, passando per il Campus Einaudi dove tensioni con la polizia hanno già tiltato il traffico, con manifestanti che siedono per terra cantando “Bella Ciao” in arabo. E allora, forse il momento è propizio perché questo governo – così tanto giustamente criticato dal corteo, con i suoi sussidi alle armi israeliane mascherati da “cooperazione” – faccia un gesto di etica pubblica e riconosca lo Stato palestinese, come stanno facendo tutti i paesi occidentali tranne gli Stati Uniti, di cui noi siamo, ahimè, colonia culturale e militare. Spagna, Norvegia, Irlanda: nazioni che, nel loro piccolo, hanno osato l’atto simbolico, rompendo il tabù del “dialogo” che è solo sinonimo di inerzia. L’Italia, con la sua tradizione umanitaria non può più tergiversare. Riconoscere la Palestina non è anti-israeliano; è pro-pace, un passo verso un’alleanza eterna.

Gaza ci ricorda che il tempo non è lineare: è un circolo, dove il passato coloniale (dalla Dichiarazione Balfour al Piano di Partizione ONU) ritorna nel presente come spettro. I ragazzi che marciano oggi, con i loro smartphone che riprendono il corteo per TikTok, incarnano questa temporalità ibrida: eredi del ’68 digitale, ma radicati in un’urgenza fisica. Non sanno forse tutto – quanti capiscono le sfumature tra Hamas e Autorità Palestinese, o il ruolo di Qatar e Turchia? – ma il loro “siamo tutti antisionisti” è un atto performativo, un dire che precede il sapere, come in Wittgenstein: il linguaggio è uso, e l’uso qui è resistenza. È bello, sì, perché riporta l’infanzia al centro: quelle bambine con le bandiere non sono pedine; sono il futuro che la guerra cerca di cancellare. Ricordo una foto da Gaza, circolata ieri su X: una bambina con un aquilone fatto di plastica riciclata, che vola sopra le rovine. Volare, in quel contesto, è ontologia: affermare l’alto contro il basso, il possibile contro il determinato.

Gianni Vattimo
Gianni Vattimo Ansa

E la complessità? Ecco il cuore del paradosso. Sostenere la Palestina significa mettere in discussione le categorie stesse del nostro Occidente: la sovranità come monopolio della violenza (Weberiana), la sicurezza come espansione (buzzword israeliana). Ma come farlo senza cadere nel manicheismo? Vattimo, di nuovo, ci guida: con debolezza, con ermeneutica. Il sionismo non è monolitico; ci sono voci interne, da Yeshayahu Leibowitz a gruppi come Breaking the Silence, che decostruiscono il mito della difesa eterna. Allo stesso modo, la causa palestinese non è immune da critiche: il rifiuto di Oslo, le derive autoritarie di alcune fazioni. Eppure, nel corteo di oggi, questa complessità si dissolve in un noi inclusivo. Vedo il meccanico della moto chiacchierare con un professore di Palazzo Nuovo – ex collega mio, che mi spiega come i droni su Gaza usino algoritmi di machine learning per targeting “preciso”, un ossimoro etico. “Siamo tutti qui perché il concreto ci ha svegliato”, mi dice. Sì: post-pandemia, con le sue lezioni di precarietà universale, e le guerre che si intrecciano (Ucraina come specchio di Gaza, per chi scrive), riscopriamo la militanza non come hobby, ma come telos esistenziale. Sartre lo chiamava impegno: l’engagé, l’uomo che sceglie di essere causa nella sua causa.

Torino, sotto la pioggia, pulsa di questa energia. Sono contento. Il corteo raggiungerà piazza Castello, dove i manifestanti – ora una marea verde-nera, colori USB e Palestina intrecciati – bloccheranno "tutto" come dicono in coro. È un’immagine che viene dagli anni '70 del 900: simulacro che diventa reale, dove il virtuale amplifica il fisico. E qui, tra i volti, emerge il senso dell’adesso: tempi orribili, sì – con l’Italia che spende miliardi in F-35 mentre le scuole crollano – ma interessanti, perché l’orrore svela crepe. La pandemia ci ha insegnato la vulnerabilità corporea; le guerre, l’interconnessione letale. Gaza è il nodo: un laboratorio dove testiamo il fallimento dell’umanesimo liberale, dove il “mai più” dell’Olocausto si capovolge in un “di nuovo sì”. Ma la militanza è antidoto: non illusione, ma praxis. Come diceva Benjamin, la storia non è progresso, ma costellazione: e oggi, la costellazione intorno a me è Torino-Gaza, 1968-2025, Vattimo-Lévinas.

Chiamiamo il governo a un gesto: riconoscere la Palestina. Non per populismo, ma per etica hegeliana: lo spirito del mondo avanza per negazioni. L’Italia, colonia USA – con basi NATO che ospitano armi per Tel Aviv – deve emanciparsi. Altri lo fanno: Belgio, Slovenia e addirittura UK. Noi, con la nostra Mole che sfida il cielo come diceva Nietzsche della volontà di potenza, possiamo e dobbiamo. È un atto debole, ma potente: aprire uno spiraglio di speranza.
La pioggia cessa, il corteo – discussioni su boicottaggio, su come collegare Palestina a No TAV – sento, ascolto, spesso non condivido né capisco... ma so che questa giornata non è fine, ma inizio. La mia generazione, orfana di storia, ne ha fatta trovare una a chi è venuto dopo: non nostalgica, ma viva. Sotto la Mole, pioviggina ancora, ma i colori delle bandiere brillano. È commovente, sì; ma soprattutto, necessario. Viva la pace, viva la Palestina.

https://mowmag.com/?nl=1

More

A che serve distruggere il pianeta se restiamo comunque infelici? Il filosofo Raffaele Alberto Ventura ci spiega perché siamo tutti disagiati (spoiler: è anche colpa nostra…)

di Riccardo Canaletti Riccardo Canaletti

MOWBOOK REVIEW

A che serve distruggere il pianeta se restiamo comunque infelici? Il filosofo Raffaele Alberto Ventura ci spiega perché siamo tutti disagiati (spoiler: è anche colpa nostra…)

“Blocchiamo tutto”, ma non Giorgia Meloni. Cosa pensa davvero il governo di Israele e Gaza? Ecco perché gli scioperi non intaccano il consenso: c’entra la “diplomazia del cazzeggio” di Giorgia (da Domenica In a Trump)

di Riccardo Canaletti Riccardo Canaletti

Il trucco

“Blocchiamo tutto”, ma non Giorgia Meloni. Cosa pensa davvero il governo di Israele e Gaza? Ecco perché gli scioperi non intaccano il consenso: c’entra la “diplomazia del cazzeggio” di Giorgia (da Domenica In a Trump)

Pontida 2025? Il Luna Park delle contraddizioni della Lega di Salvini: da Kirk "martire" agli autonomisti sardi, dai filo-israeliani ai "vichinghi" bossiani: ogni "giostra" gira da sola, ma non si incontra

di Gianmarco Aimi Gianmarco Aimi

la lega (non) ci lega

Pontida 2025? Il Luna Park delle contraddizioni della Lega di Salvini: da Kirk "martire" agli autonomisti sardi, dai filo-israeliani ai "vichinghi" bossiani: ogni "giostra" gira da sola, ma non si incontra

Tag

  • Attualità
  • Politica
  • Giorgia Meloni
  • Opinioni
  • Domenica In
  • Donald Trump
  • Israele

Top Stories

  • Francesco Magnani sbrocca, a chi non succede? Ma l'incidente, le "Brigate Rosse" e il video shock sono meno ipocriti del giornalismo che nasconde le notizie. E l'unico normale è il "volto noto" di La7...

    di Ottavio Cappellani

    Francesco Magnani sbrocca, a chi non succede? Ma l'incidente, le "Brigate Rosse" e il video shock sono meno ipocriti del giornalismo che nasconde le notizie. E l'unico normale è il "volto noto" di La7...
  • Video shock! Chi è il "volto tv" che inneggia alle Brigate Rosse dopo un incidente? Welcome to Favelas diffonde le immagini e gli utenti riconoscono un presentatore. Chissà l'Aria che tira a La7...

    di Ottavio Cappellani

    Video shock! Chi è il "volto tv" che inneggia alle Brigate Rosse dopo un incidente? Welcome to Favelas diffonde le immagini e gli utenti riconoscono un presentatore. Chissà l'Aria che tira a La7...
  • Abbiamo visto le foto dell’autopsia di Chiara Poggi e vi raccontiamo cosa dimostrano (gli assassini sono almeno due) e cosa succederà tra qualche giorno... Il punto su Garlasco con un'intervista al medico legale Pasquale Bacco

    di Giulia Ciriaci

    Abbiamo visto le foto dell’autopsia di Chiara Poggi e vi raccontiamo cosa dimostrano (gli assassini sono almeno due) e cosa succederà tra qualche giorno... Il punto su Garlasco con un'intervista al medico legale Pasquale Bacco
  • Enzo Iacchetti e l’ipocrisia degli attori, conduttori e vips. Ora che c’è da protestare davvero dove siete? O in realtà siete solo degli influencer?

    di Moreno Pisto

    Enzo Iacchetti e l’ipocrisia degli attori, conduttori e vips. Ora che c’è da protestare davvero dove siete? O in realtà siete solo degli influencer?
  • Per la prima volta parla Aurora Simoncini, moglie di Ferdico: “Mio marito non è un pentito, si farà il carcere con dignità”. E arriva anche la smentita degli avvocati dell’ex capo ultras

    di Redazione MOW

    Per la prima volta parla Aurora Simoncini, moglie di Ferdico: “Mio marito non è un pentito, si farà il carcere con dignità”. E arriva anche la smentita degli avvocati dell’ex capo ultras
  • Esclusiva MOW: Beatrice Venezi è il nuovo direttore stabile del teatro la Fenice di Venezia? E le orchestre insorgono! Tutto quello che sappiamo

    di Gianmarco Serino

    Esclusiva MOW: Beatrice Venezi è il nuovo direttore stabile del teatro la Fenice di Venezia? E le orchestre insorgono! Tutto quello che sappiamo

di Leonardo Caffo Leonardo Caffo

Se sei arrivato fin qui
seguici su

  • Facebook
  • Twitter
  • Instagram
  • Newsletter
  • Instagram
  • Se hai critiche suggerimenti lamentele da fare scrivi al direttore [email protected]
  • Attualità
  • Lifestyle
  • Formula 1
  • MotoGP
  • Sport
  • Culture
  • Tech
  • Fashion

©2025 CRM S.r.l. P.Iva 11921100159 - Reg. Trib. di Milano n.89 in data 20/04/2021

  • Privacy