Siamo tutti figli della Storia della follia in età classica di Foucault. E ogni saggio di per sé originale è questo lavoro di scavo, questa archeologia, degli spostati che possono essere, di epoca in epoca, emarginati (Foucault) o la quasi totalità della società civile. Di questo parla La conquista dell’infelicità di Raffaele Alberto Ventura (Einaudi, 2025). Chi sono gli spostati? Lo spiega Ventura, sono i disagiati. E cos’è il disagio se non l’aporia, la “visione di parallasse” dell’individuo moderno, più o meno benestante, e comunque infelice. Per l’ultimo dell’anno del 2023 il New Yorker pubblicò la copertina di una ragazza seduta nel suo ufficio a lavorare, con lo schermo acceso davanti a lei, mentre il resto del mondo stava festeggiando. È una rappresentazione del burn-out, ma anche di una sorta di malattia generazionale, legata a quella fascia di giovani e poco più che giovani che non hanno goduto del boom economico né del benessere prodotto da una società che per anni ha campato di rendita. Sono queste le persone che oggi, in giro per il mondo occidentale, stanno disertando (Franco Bifo Berardi) e scelgono sempre di più la via delle dimissioni (ne ha scritto per esempio Francesca Coin). Chi è quella ragazza davanti al pc la notte del 31 dicembre? Una persona a cui hanno spento un sogno. E se prendiamo come simbolo del desiderio di autorealizzazione il sogno americano, dovremmo iniziare a riconoscere che il contrario di questo sogno non è un incubo, ma non sognare affatto. È Ugo Fantozzi, come suggerisce Ventura nell’introduzione.

La tesi del libro è semplice, lo scrive l’autore: “A non essere più sostenibile è l’individuo liberale”. Detto in altri termini, il nostro stile di vita ha prodotto contraddizioni tali da risultare, ormai, non più gestibili. Anzi, vivere in queste contraddizioni è diventato impossibile, è una perversione gratuita contro la quale non si può contrapporre, almeno per ora, niente. Questa immobilità sociale, o decadenza naturale verso il proprio centro di gravità sociale, per usare la suggestione scientifica di Ventura, porta le persone a convivere con la propria frustrazione, attenuata solo marginalmente da un benessere economico garantito dall’ultimo secolo di capitalismo. Progresso materiale a cui non corrisponde alcuna garanzia di felicità. Anzi, al contrario, il “disagio della civiltà” è tutto in questa impraticabilità della felicità nella società liberale. Se la società aperta ti promette la ricerca della felicità, be’, quella ricerca è destinata o a interrompersi senza successo o a proseguire all’infinito. E mentre questo tapis-roulant gira, l’individuo disagiato consuma, fortissimamente consuma. A scapito di altri, per Ventura, dei più poveri, degli sfruttati, dell’ambiente. Questa è una tesi già esposta, in modo più analitico, da Matthew Desmond in Povertà, in America (La Nave di Teseo). Come sottolinea Ventura, “essere è costoso”. Ma questo costo, è questa la trappola infernale, è completamente riversato sugli altri, fossero anche le generazioni future (nel caso, per esempio, dell’inquinamento) o delle generazioni lontane (il Sud del Mondo). È anche la tesi del nuovo ecosocialismo, quello ben descritto ne Il capitale nell’antropocene di Kohei Saito. In un certo senso è un’evoluzione della classica critica al capitalismo come gioco a somma zero, ovvero che, facendo progredire alcuni, condanna inevitabilmente altri. In questo caso, poiché il capitalismo non funziona in questo modo (ma è un gioco a somma positiva, cioè in cui tutti guadagnano), la forbice diventa immateriale. Anzi, per distinguere la tesi di Ventura dal “buonismo” ideologico di Erich Fromm (che distingueva l’avere e l’essere), transmateriale.

Ci torna utile, ancora una volta, la copertina del New Yorker. Poniamoci di nuovo la stessa domanda: chi è, o cosa rappresenta, quella ragazza davanti al pc? È l’esempio di ciò che Silvio Lorusso definisce “imprendicariato”, la nuova condizione di totale precarietà, per esempio tipica di chi svolge un lavoro cognitivo (come il giornalista freelance, il social media manager o un esperto di editoria), di chi per lavorare deve costantemente investire, scommettere e giocare sulla promessa di un profitto futuro, garantito dal nuovo diktat: lavorare sempre. Una versione di questa condizione che potrebbe vagamente spiegare quanto spiega Ventura al vecchio comunista ortodosso è quella del rider. L’uomo che va in giro a fare consegne in bici elettrica e punta a massimizzare il numero di consegne per poter guadagnare il più possibile, spesso è “imprenditore di se stesso”, un lavoratore autonomo a tutti gli effetti. Eppure vive una condizione di totale tristezza economica e sociale, quasi il mondo circostante facesse fatica a riconoscergli lo status di essere umano. Deve lavorare sempre, per più utenti, tagliando dove può, indipendentemente da come il mondo intorno a lui si muove. È una strategia infelice e inefficace, ma è la “martingala sociale”, come la definisce Ventura mutuando da una strategia adottata nel gioco d’azzardo nel Settecento, cioè una forma di autoinganno.

Torna allora alla mente una vecchia domanda: che fare? La risposta, spiega Ventura nell’ultima parte del libro, non è così immediata. Né, tanto per cambiare, facile. Bisogna prima di tutto prendere consapevolezza di come il mondo stia, neanche troppo lentamente, finendo. È la tesi di Ventura, che ricalca tuttavia alcune false credenze neomalthusiane, sconfessate, almeno sul piano dei dati – che nel libro hanno tuttavia un valore molto relativo, perché considerati non del tutto esplicativi – dal XX secolo (in estrema sintesi: la tesi di Malthus secondo cui le risorse finite sarebbero incompatibili con la crescita della popolazione descrive adeguatamente il mondo che Malthus stesso si stava lasciando alle spalle, ma non la società attraversata dal successo della rivoluzione industriale; questa tesi viene tuttavia utilizzata come sostrato episteomologico di alcune teorie apocalittiche in voga negli anni Settanta, tra cui quella, ormai cult, sviluppata a partire dal Rapporto sui limiti dello sviluppo pubblicato nel 1972 dal Mit su richiesta del Club di Roma). Per Ventura “l’essere umano occidentale è una tecnologia che non possiamo più permetterci”, ma questo non è vero. Una delle caratteristiche tipiche della “tecnologia occidentale”, è che si evolve in modo inaspettato e spesso spontaneo man mano che si continua a coltivare la creatività umana. In questo senso si può rispondere a ciò che Ventura sostiene nella prima parte del saggio, quando mostra come la nostra società ci faccia desiderare di essere qualsiasi cosa senza fornirci in realtà davvero delle opportunità per esserlo. La storia recente in Occidente ci dimostra che questa stessa ricerca produce incredibili successi, grazie a quella che alcuni studiosi, a partire da Friedrich von Hayek, definiscono “eterogenesi dei fini”. È una provocazione che lanciamo a Ventura: la consapevolezza di questo “progresso collettivo” non dovrebbe essere sufficiente a farci meno infelici?
