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Sorrentino ha rotto il c**o: qualcuno deve pur dirlo e noi lo diciamo. Con la Grazia imita se stesso

  • di Gianmarco Serino Gianmarco Serino

  • Foto: Ansa

29 dicembre 2025

Sorrentino ha rotto il c**o: qualcuno deve pur dirlo e noi lo diciamo. Con la Grazia imita se stesso
La Grazia di Sorrentino è un film lungo e autoreferenziale: paesaggi bellissimi, ma personaggi poco caratterizzati e finale prevedibile e un po' da parac**o

Foto: Ansa

di Gianmarco Serino Gianmarco Serino

Sentirsi un Cotroneo non è una bella cosa. Ricordate Carmelo Bene che se la prendeva con i critici e in particolare con il dottor Cotroneo? Tutti quei discorsi sull’infelicità dei critici. Ora noi vorremmo sottrarci dalla categoria dei critici, perché non è detto che da questa recensione ne venga fuori esattamente qualcosa. Siamo solo degli spettatori, okay? Criticare una cosa significa in qualche modo spacchettarla. Ma è una cosa difficile, presuppone cultura, conoscenza, esperienza. Diciamo che noi La Grazia di Paolo Sorrentino ce la siamo guardata in anteprima e non ci è piaciuta. Sorrentino è un gigante del cinema. Uno di quei registi che, se i produttori ricevono un soggetto firmato da lui, lo comprano a scatola chiusa. Ecco, adesso da qui a ipotizzare che La Grazia sia stato comprato a scatola chiusa saremmo abbastanza impertinenti e muovere critiche dal basso di queste colonne digitali verso il grandissimo Paolo Sorrentino sarebbe arrogante. Però, fatte queste premesse, aggiungiamo un attacco a questo pezzo. Esticazzi! La Grazia è un film lunghissimo, lentissimo e molto autoreferenziale. Due ore e mezza di personaggi poco caratterizzati, cliché e frasi prevedibili. Quando Sorrentino annunciò di star scrivendo La Grazia stupì particolarmente la rapidità con cui - dopo un film oggettivamente altissimo e bellissimo come Parthenope, che raggiunge, eguaglia e forse supera, a modo suo, La Grande Bellezza – ne sia stato realizzato un altro.

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È vero pure che con i tempi imposti dall’industria del cinema al giorno d’oggi in qualche settimana di riprese il film è fatto, ma la scrittura è pure una cosa importante e in essa manca tutta la leggerezza a cui ci ha abituati Sorrentino. Forse è proprio questa la chiave di lettura de La Grazia, un film artatamente pesante per riprodurre in dimensione totalizzante la pesantezza del protagonista, un noiosissimo presidente della Repubblica – Sorrentino dice di essersi ispirato a Mattarella – che non sa se firmare oppure no la legge sull’eutanasia e dare la grazia a due personaggi rinchiusi nel carcere di Torino. Come sempre la fotografia di Sorrentino è ineccepibile. I paesaggi sabaudi riproducono l’atmosfera di quel lato rurale del Piemonte, così caratteristico nell’inverno, con i suoi filari d’alberi immersi nel verde dei campi e nella nebbia gelida. Ma finisce lì. Perché è tutto così prevedibile. Anche il finale. Lo si sa fin dall’inizio che verrà presa quella decisione, perché è la decisione giusta e perché, tra l’altro, Sorrentino dice di essersi ispirato a Mattarella, che proprio a distanza di pochi giorni dall’uscita nelle sale del film ha concesso la grazia a diversi detenuti, tra cui persone anziane o gravemente malate come Franco Cioni e Gabriele Finotello, altri con pene residue minime come Massimo Zen, casi segnati da sproporzioni tra reato e condanna o percorsi di reinserimento già avviati come Patrizia Attinà e Zeneli Bardhyl. Provvedimenti che hanno che hanno fatto inc**re una fetta dell’opinione pubblica italiana.

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Quindi, a livello istituzionale, questo film s’incastra perfettamente con l’attualità, e si pone dalla parte dei buoni, non dei cattivi. Una scelta semplice, per nulla difficile, ed è stato messo troppo in luce questo aspetto rispetto al contenuto vero e proprio del film e alla sua forma. È tutto troppo spiegato allo spettatore, pure la scena dell’astronauta che piange e poi ride delle sue lacrime che rimangono sospese senza gravità. È tutto lì il cuore del discorso. Se solo potessimo vivere senza gravità, non rimarremmo incollati, come lo siamo con i piedi per terra, ai pensieri ossessivi che ci tormentano e torturano. Il punto, però, è che è proprio difficile abbandonare quella gravità di pensiero, di senso civico, di giustizia guardando un film del genere. E’ un artificio poetico che ricorda un po’ il film su Berlusconi, estremamente macchinoso, macchiettistico, con poca profondità dei personaggi. Però che ci vogliamo fare, non tutte le ciambelle vengono con il buco e Sorrentino ci ha già regalato tanti film bellissimi: L’uomo in più, Youth, La Grande Bellezza, Il Divo, Parthenope, ma pure la prima stagione della serie The Young Pope con Jude Law. Pare quasi che lo spirito creativo di Sorrentino abbia, come una medaglia, due lati. Uno improntato alla leggerezza, alla poesia e all’intelligenza alogica, l’altro invece dedicato a voler dare un giudizio sulle cose, un giudizio che nelle sue opere migliori è decisamente sospeso. Qui invece un giudizio c’è, ma quando Sorrentino giudica scade nel banale, perché il giudizio è una cosa molto banale. È molto più bello raccontare senza prendere posizione, ma anche questo è un giudizio e non è certamente bello, è brutto giudicare, è qualcosa di volgare. Ma qualcuno dovrà pur farlo e Sorrentino, in questo caso, si è voluto sporcare le mani con questa brutta cosa che è il giudizio. Forse non gli è riuscita bene, ma siamo certi sia ancora capace di regalarci perle da custodire nei nostri cuori, come le tante che ci ha già regalato.

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