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Squid Game 3, nato incendiario muore pompiere? L'abbiamo visto su Netflix, ma com'è? La stagione finale diventa un talent sulla carità cristiana (fa concorrenza a Trenta ore per la vita)

  • di Grazia Sambruna Grazia Sambruna

28 giugno 2025

Squid Game 3, nato incendiario muore pompiere? L'abbiamo visto su Netflix, ma com'è? La stagione finale diventa un talent sulla carità cristiana (fa concorrenza a Trenta ore per la vita)
Partiamo dalla buona notizia: Squid Game è finito (forse). La stagione che terminerebbe il gioco del calamaro è a piede libero su Netflix, tra l'indifferenza generale - perfino della stessa piattaforma. Nelle sei puntate conclusive, gli sceneggiatori ricordano di inserire qualche scena di violenza gratuita e funambolica in più, grazie al cielo. L'impressione generale, però, è quella di trovarsi di fronte a un talent sulla carità cristiana. Una sorta di 'Trenta ore per la vita', ma con una gara in ballo. Il buonismo ha estinto tutto il potenziale di questa serie - sopravvalutata fin dagli esordi?

di Grazia Sambruna Grazia Sambruna

Squid Game è finito. E immaginiamo sia stata una liberazione in primis per il suo creatore nonché regista, Hwang Dong-hyuk. Conto in banca a parte, lui a Netflix aveva proposto un film, non una serie tv. Poi, visto il successo dell'esordio, è stato 'convinto' a scilindrare altre due stagioni (una in realtà, ma scaglionata in un paio spezzoni tramite uno dei cliffhanger più fiacchi della storia). Il nostro Hwang Dong-hyuk avrebbe dovuto fare più attenzione, insomma, a ciò che desiderava. Oppure, ma questo è quasi impossibile, rimanere fedele ai propri principi: o lungometraggio o niente. Invece, purtroppo, non è andata così e ora ci troviamo a dover scrivere di un titolo nato incendiario e morto pompiere. Glassato da tanta retorica melassa da arrivare a sembrare un talent sulla carità cristiana, più che una competizione mortale tra sciagurati concorrenti sostanzialmente condannati a morte certa. Nel capitolo conclusivo, gli sceneggiatori ricordano di inserire qualche funambolico decesso, è vero, c'è molta più azione che nel precedente. E nuovi 'giochi' letali. Sono i dialoghi e i rapporti tra i contendenti, però, a rovinare la mattanza. Il buonismo ha ucciso il gioco del calamaro. 

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La prima stagione di 'Squid Game' era uscita nel 2021, l'anno funesto e post-pandemico in cui eravamo riusciti a farci piacere perfino 'LOL - Chi ride e fuori', da tanto stavamo traumatizzati e, quindi, di bocca buona. In effetti, pur non avendo una trama propriamente avanguardistica per i topos della narrazione coreana, le trappole mortali, ispirate a giochi dell'infanzia come 'Un Due Tre Stella', davano l'impressione di qualcosa di mai visto prima a livello di scenografica efferatezza. Il racconto voleva essere anche una feroce critica al capitalismo, si mantellava di aria fritta engagée, in modo da farci sentire meno stupidi e crudeli: non eravamo lì per vedere povera gente crepare male, no, eravamo lì per il bel messaggio contro le storture della nostra società. Sì sì. 

Ciò che non funziona in questo capitolo conclusivo del gioco del calamaro è, innanzitutto, il modo in cui è stato impiattato: sei mesi fa ne era uscita la prima parte, ossia sette episodi (aka sette ore) in cui succedeva poco e niente perché "nasce come stagione di passaggio, in attesa del gran finale". Ora, va bene che la soglia d'attenzione del pubblico si è drammaticamente ridotta a causa dei social o del cambiamento climatico, come vi pare. Ma richiedere ben sette ore solo per un antipasto è pretesa megalomane, erculea, per non dire irrispettosa nei confronti del sacro tempo libero degli spettatori. Se ve la siete persa, c'è un meraviglioso riassunto al principio di questa nuovo: basta quello. Il vincitore Seong Gi-hun torna nel gioco con un piano (ridicolo) per distruggerlo dall'interno. Ma deve vedersela con gli altri concorrenti che credono più al miraggio del montepremi finale che a lui, povero pazzo. Verso la conclusione di tale primo atto, il nostro innesca una rivolta che si conclude nel sangue di una dolorosa sconfitta. In pratica, involontariamente ne fa fuori più lui che lo stesso gioco del calamaro. Campione.

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Se la precedente stagione era stata annunciata da Netflix con una promozione faraonoica, questa ha potuto godere di un evento di presentazione capitolino (in cui è stato coinvolto Taffo perché una cosa giusta si doveva pur fare), qualche post sul profilo Instagram della piattaforma e un viaggio spesato ai creator Luis Sal e Dario Moccia, volati in Corea per visitare il set della serie - e smarchettare roba Canon. Ah, la critica al capitalismo, signora mia. Insomma, perfino la grande N ha dato l'impressione di crederci pochino, di sapere di aver per le mani una mezza sòla. Il risultato? La stagione finale di 'Squid Game' è uscita nella quasi indifferenza generale, mentre della data di rilascio della precedente erano a conoscenza pure i tostapane. Un fatto, lo ribadiamo, piuttosto indicativo. 

Cosa resterà, davvero, del gioco del calamaro? Di certo non un prossimo capitolo della saga, si vocifera - forse - di uno spin-off, magari un prequel sul personaggio del Front Man. E pazienza. In realtà, ciò che rimarrà realmente nell'immaginario di tutti per un po' sono i costumi: le tutine fucsia dei carcerieri coi mitra e quelle verdi dei concorrenti popoleranno ancora feste di Halloween, Carnevale, compleanni di grandi e piccini, chi lo sa, magari pure Bar Mitzvah tematici. Inizio e fine dell'impatto 'culturale' di 'sta roba. 

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Non siamo qui per fare spolier e non ne faremo, ma il problema fondamentale di 'Squid Game', anche in questo ultimo capitolo, è sempre lui, il numero 456, il protagonista reduce Seong Gi-hun. Una sorta di Avenger (nei fatti) ultra-cattolico che cerca di procedere nel gioco a colpi di santa carità cristiana. Ma con la carità cristiana non sopravvivi manco a 'Ciao Darwin', bello de casa, dove pensi di andare là in mezzo, con la gente che ti punta i mitra addosso e gli altri concorrenti che sperano di vederti crepare male prima di presto? Niente, Seong Gi-hun se la sente rivoluzionario, in pratica Gesù. E ciò lo fa agire in maniera scriteriata, fuori da ogni logica. Il punto è fermare il gioco, salvarsi la pelle o dimostrare di essere i più buoni e puri di cuore di tutti? Seong Gi-hun non ha dubbi: lui punta alla santità. E al pubblico, purtroppo, non importa un belino. Perché non è lì per sorbirsi un biopic su vita e opere di Padre Pio. 

Adeso alla sua strenua moralità fuori contesto, non gli vediamo mai compiere un passo falso, nonostante i bivi che gli si parano davanti - e che potrebbero salvare la vita a molti, rinunciando a un briciolo dell'ingombrante integrità d'animo che tiene. Così, se ci passate il francesismo, non è essere buoni: è essere ciula. Tra l'altro, l'evitamento di molte scelte 'sbagliate' da parte del protagonista, ci priva di quelli avrebbero potuto essere i momenti più gore della saga. Ovverosia di scene che sarebbero diventate cult. "Ma l'ultima di 'Squid Game'? "Hai visto quando... Madò, chi se l'aspettava mai!". Ecco, scordatevi di esclamare una roba del genere a fine visione, perfino i ricchi cattivi, lì per godersi lo spettacolo del massacro dal vivo, sul finale quasi si commuovono. Non redenti, ma redentini. Il gioco del calamaro si conclude 'assolvendo' un po' tutti e facendo trionfare il buonismo sul 'male'. Nato incendiario, muore pompiere. Ma la buona notizia è che, se non altro, la messa sia finita, andiamo in pace. Nel nome della noia. 

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