Squid Game 2 è una calamarata pazzesca. Tre lunghissimi anni di "attesa" per ritrovarci nel bel mezzo di una storia di cui, in coscienza, nessuno ricordava più un cazzo e virgola. A parte, magari, la gigantesca bambola assassina, quell'infido vecchietto della prima stagione, coreani che muoiono malissimo un tanto al chilo. Bene, il regista Hwang Dong-hyuk se ne batte altamente del nostro prezioso tempo. Lui ci ributta in mezzo a una trama come se dovessimo saperla a memoria, frame per frame, senza alcuna pietà. Col solo ausilio di due minuti di riassuntino, tipo dire che Leopardi si chiamava Giacomo, e pronti via, verso l'infinito oltre la siepe. Le prime due puntate filano lisce e incomprese con personaggi che ritornano con maggior sicumera degli Avenger, mentre da casa ci interroghiamo su chi diavolo potranno mai essere questi qua, come mai si agitino tanto, vabbè tanto la roulette russa, sulle note di Andrea Bocelli che Umberto Tozzi era già monopolio de 'La Casa di Carta', li spazza quasi tutti, amen. Il consiglio spassionato (che avremmo rivolto anche agli sceneggiatori di 'sta roba) è di cominciare dal terzo episodio, quando il 'gioco' entra nel vivo e finalmente si torna a casa, ovverosia in quell'incubo un po' Escher e molto Instagram aesthetic dove le persone sono numeri e muoiono malissimo per futili motivi. Protagonista Seong Gi-hun, unico sopravvissuto al precedente inferno, uno che più fesso proprio non si poteva. Viene da tifare tutto il tempo per i "cattivi" in tute fucsia. Almeno quelli lì sono professionisti, organizzatissimi, che je vuoi di', signora mia. Se non altro, sanno fare il loro sporco lavoro. Con queste premesse, andiamo ad analizzare tutti i motivi per cui Squid Game 2, uscita su Netflix il giorno di Santo Stefano, si configura come uno di quei regali natalizi di cui avremmo fatto volentieri a meno.
Partiamo dall'inconsistenza di questo Seong Gi-hun, il Giocatore 456 che si pensa Gesù (infiniti i suoi pretestuosi predicozzi da finalista di Miss Italia) quando in realtà è solo un imbecille. Miracolatissimo superstite, torna nel gioco del calamaro con l'unico scopo di salvare tutti gli sciagurati concorrenti tramite il potere dei buoni sentimenti. Buoni sentimenti che, ovviamente, là dentro nessuno tiene. Perché qui, stellina del cielo, tocca sopravvivere, mica fare una maratona Telethon. L'avidità sarà pure una brutta bestia, niente da dire, ma crepare è peggio. Un concetto tanto semplice quanto incomprensibile per il nostro eroe che, di prova in prova, resta sempre più rammaricato (e, purtroppo, monologante) riguardo al grande tema di quanto possano essere stronzi gli esseri umani, tipo Cristo nel Getsemani. Seong Gi-hun non perde occasione per professarsi deluso assai dai comportamenti dei compagni di viaggio. Compagni di viaggio che, intanto, se ne fottono. Questo Avenger coreano, pur essendo sopravvissuto al gioco, in due anni di tempo elabora un piano per sminchiare i cattivi talmente scemo da far quasi tenerezza. Assolda una masnada di amichetti 'buoni' e disorganizzatissimi (c'è l'alcolista, il pentito, il rancoroso ecc), facciamo gli apostoli, vagano nel Pacifico alla ricerca dell'isola su cui si compiono tali atroci misfatti. A bordo di una barchetta a remi. Vi dobbiamo anche dire come va a finire? No, infatti.
Una buona notizia comunque sussiste: i concorrenti stavolta sono talmente odiosi fin dal momento delle presentazioni che non si vede l'ora di scoprire quanto male andranno a crepare. Non si tratta più soltanto di disgraziati senza speranze finiti lì al posto della questua. Ma, molto spesso, di grandi truffatori, youtuber furbacchioni, patiti di criptovalute che si sono arricchiti sulle spalle di poveri creduloni fino a che la situazione gli è scoppiata tra le mani e adesso tengono miliardi di debiti sulla collottola, creditori mannari alle calcagna, insomma, piuttosto di 'sta vitaccia tanto vale azzardare il tutto per tutto, financo al possibile trapasso. Che tanto, ormai.
Molto ruffiana la scelta dei personaggi principali: la velina coreana, l'influencer mezzo trapper dal ciuffo viola che si gode tutto il viaggio impasticcato d'ecstasy, non capisce un belino, è il migliore in campo perché lui non gioca, frana, vede i draghi, fuori come la terrazza di un attico a City Life. Non male anche l'innesto di una persona transgender che sta lì proprio nella speranza di vincere, aggiudicarsi il malloppo e col malloppo volare in Thailandia dove completare la transizione e vivere finalmente serena. La coppia madre e figlio (ludopatico) sono la quota Boldi e De Sica della trama, o forse Sandra e Raimondo: lei, vecchina erosa dall'età ma con temperamento despota, lo cazzia, lui, quattrocchi con enormi difficoltà a trovarsi le terga con le mani, subisce. Comunque, la linea comica del racconto. Daje a ride.
La trama di questa roba ci prende talmente in giro da rifilare un principale colpo di scena tale e preciso a quello della scorsa stagione, forse l'unico che la maggior parte dell'affezionato (?) pubblico ancora ricordava. Ovviamente, il nostro eroe Seong Gi-hun non fiuterà la sòla per tutto il tempo, troppo intento a predicare la pace nel mondo, in quel mondo dove chi tende anche soltanto una mano, crepa. You may say he is a dreamer, ma pure chi gli dà retta non passa esattamente da fulmine di guerra, a 'sto punto viva i cattivi e lunga vita ai cecchini che almeno seguono una logica, grazie a Mefisto. E scremano gli insopportabili buonisti a ogni costo.
L’impressione è che Hwang Dong-hyu - che sin dall’inizio progettava di fare un film - questa seconda stagione non la volesse proprio fare, purtroppo però la prima è andata così bene da non concedergli via di scampo. A suon di palanche, beninteso. Quindi accrocchia ‘sta sceneggiata che è un fritto misto di déjà vu micidiali e qualche timida trovata vagamente creativa soffocata da un incessante allure melò a là Paradiso delle Signorə. Squid Game 2 è, dichiaratamente, una stagione di passaggio ovverosia esiste per fare da ponte tra la prima e la terza, quella conclusiva, le cui riprese cominceranno subito dopo le sante feste. Ma davvero dovremmo spendere sette ore delle nostre vite a guardare una roba che nemmeno si conclude? Che ha pure la pretesa di lasciarci appesi a un cliffhanger timidissimo, segnato dalla morte di un personaggio di cui non importa alcunché a nessuno, all’infuori del protagonista che, però, ricordiamolo è così scemo da rendere impraticabile ogni scampolo di empatia. Tanto vale aspettare il prossimo capitolo, vedersi il riassunto di questo secondo in cui non succede praticamente niente e via verso il termine di cotanta via crucis coreana.
Il problema di ‘Squid Game 2’, in fondo, è lo stesso della prima stagione, un peccato originale che ora si manifesta in tutta la sua insipida mancanza di argomenti: in circa sessanta minuti di episodio, ce ne sono tre o quattro che vale davvero la pena di vedere (ovverosia quelli in cui la gente crepa male). Solo che questi tre o quattro minuti ‘meritevoli’, ora li abbiamo già visti tre anni fa. Niente sconvolge, tutto rientra nella ‘norma’ del gioco del calamaro. Un copia e incolla claudicante e tedioso da morire. Un po’ come quando al ‘Grande Fratello’ richiamano tre cervi di ‘Temptation Island’ per fare hype e centellinano i loro drammi in centinaia di estenuanti puntate quando tutto si potrebbe risolvere nel giro di mezz’ora. I social, comunque, sembrano già impazziti perché a ‘sto giro la maggior parte dei personaggi principali è di pregevolissimo design. Virali i meme sul fatto di seguire questa serie per ‘la trama’, quando ‘la trama’ è la foto del belloccio o della belloccia ivi intrappolato. Non un grandissimo risultato per una storia in cui il protagonista si pensa Gesù, per una storia insomma che professa l’assurda pretesa di evangelizzare le masse, di imporre una riflessione su quanto sia brutto e cattivo il capitalismo. Il fatto è che nessuno ha voglia di lezioni morali da parte di Netflix, siamo lì per il sangue come se ‘Squid Game’ fosse lo sparattutto che in effetti è. Uno sparatutto con ambizioni da life coach pretestuose e fuori tema. ‘Squid Game’ se la mena troppo, al punto da farci tifare per i cattivi, se i buoni devono essere per forza così ciula e pesantoni. Un disastro annunciato, un regalo di Natale che Netflix si poteva pure tenere. L’equivalente di un brutto maglione natalizio tempestato di calamari che imbracciano mitra con in testa un cappello da Santa Claus. A riceverlo, viene proprio da parafrasare una delle più memorabili scene di ‘Parenti Serpenti’:
“È un calamaro, un oggetto fine per gente di classe. Ti piace?”
“Netflix, hai esaudito un sogno”.