19 luglio 1992: nemmeno due mesi dopo la strage di Capaci in cui era morto Giovanni Falcone, un’autobomba piazzata in via D’Amelio a Palermo uccide il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. 57 furono i giorni trascorsi fra i due assassinii, durante i quali su un’agendina di color rosso il magistrato aveva trascritto appunti fra i quali è probabile si nascondesse la chiave per capire perché, e soprattutto chi avesse interesse ad ammazzarlo a così stretto giro. Alla famosa agenda, presente al momento dell’attentato nella borsa che aveva con sé Borsellino e mai più ritrovata, i cronisti Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza hanno dedicato un libro che esce il 21 giugno in edizione aggiornata per Chiarelettere, “L’agenda rossa di Paolo Borsellino”. A Lo Bianco, corrispondente del Fatto Quotidiano in Sicilia, abbiamo chiesto che significato assume il mistero di quel documento scomparso nel nulla, specialmente oggi, dopo che il tribunale di Caltanissetta, con sentenza di primo grado del 12 luglio scorso, ha assolto il funzionario di polizia Michele Ribaudo e dichiarato prescritti i reati per Mario Bo e Fabrizio Mattei, altri due poliziotti accusati di aver indotto a mentire riguardo via D’Amelio il falso pentito Vincenzo Scarantino. “Una sconfitta per la giustizia”, ha commentato Maria Falcone.
Prescrivendo con la motivazione che l’aggravante di voler favorire la mafia non c’è, possiamo dire che a Caltanissetta giustizia non è stata fatta?
A trent’anni dall’attentato la sentenza ci consegna una verità amara, e cioè che è avvenuto un depistaggio che non ha dei colpevoli punibili penalmente. Secondo i giudici il reato di calunnia contestato agli imputati, venendo meno l’aggravante mafiosa, non è stato fatto nell’interesse della mafia. Che è un dato che era emerso abbondantemente nel corso di questi anni, perché si era capito che la sottrazione dell’agenda rossa non poteva essere stata fatta nell’interesse di Cosa Nostra. Questa sentenza azzera la vicenda e ci dà l’opportunità e la speranza che le indagini possano ripartire su un dato che purtroppo ci sono voluti trent’anni perché fosse acquisito, ovvero che questo depistaggio è stato compiuto da due poliziotti, un sottufficiale e un ispettore, che chiaramente non possono aver agito nel proprio interesse.
Infatti quelli di cui stiamo parlando sono in fondo i pesci piccoli. Poi c’erano quelli, chiamiamoli così, “medi”, dall’ex questore Arnaldo La Barbera all’ex procuratore Giovanni Tinebra all’ex capo della polizia Vincenzo Parisi, tutti e tre passati a miglior vita, fino all’ex poliziotto condannato per mafia Bruno Contrada, cioè la prima fila di inquirenti che avevano dato credito alla pista Scarantino, rivelatasi farlocca. Ma soprattutto, c’è il terzo livello, quello dei mandanti rimasti occulti. È nell’agenda rossa che avremmo trovato questi ultimi?
L’agenda rossa è stata sottratta proprio per questo. In quell’agenda, che Borsellino utilizzò solo dopo la morte di Falcone, annotava tutta una serie di fatti avvenuti in quei 57 giorni, non solo di natura investigativa. Ricordiamo che in quel lasso di tempo Borsellino venne candidato alla Superprocura, e che lui scrisse una lettera al ministro degli Interni di allora, Scotti, per rifiutare. Ci furono anche 47 parlamentari del Movimento Sociale Italiano che lo candidarono al Quirinale. Avere quegli appunti ci consentirebbe una lettura più ampia di quel periodo che decretò la fine dalla Prima Repubblica a suon di tritolo.
Esiste invece un’altra agenda di Borsellino, ma grigia, di cui invece si è entrati in possesso. Che cosa contiene?
L’agenda grigia consente di ricostruire i movimenti di Borsellino, vi annotava spese e spostamenti. Il fratello ci ha raccontato che Paolo Borsellino aveva l’abitudine di scrivere molto.
Sulla fine che fece quella rossa che cosa sappiamo, invece, che sia incontestabile?
Sappiamo in modo abbastanza certo che era dentro la borsa di cuoio che quell’ultimo giorno Borsellino portava con sé, borsa che presumibilmente fu prelevata alle 17.30 da un capitano dei carabinieri, che venne fotografato con quella borsa in mano, che è stato poi assolto dall’accusa di furto, e che ricomparve poco dopo, sul sedile posteriore della Croma blindata, ma senza agenda rossa. Tutti gli interrogativi sulla sorte dell’agenda sono ancor oggi rimasti inalterati.
A tutt’oggi non si sa l’identità di chi ha progettato e collocato la bomba in via D’Amelio. Il depistaggio, come ci confermano da Caltanissetta, è acclarato, ma non se ne conosce la regìa. Si può supporre però che vi abbia partecipato qualche elemento dello Stato. È stata una strage di Stato, quella che ha carbonizzato Paolo Borsellino?
Esiste una sentenza che assolve l’avvocato di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, dall’accusa di diffamazione, certificando di fatto che parlare di strage di Stato non è calunnioso. È la tesi sostenuta sia da Salvatore Borsellino che da ultimo anche da Claudio Fava, presidente della commissione antimafia. Certamente si tratta di una strage in cui il ruolo di apparati dello Stato è rilevante e non ancora adeguatamente venuto alla luce.
Il che rende la gravità assoluta di quanto è avvenuto. Dobbiamo pensare che in quel frangente storico, che vedeva in corso anche una trattativa con la mafia, si apriva una fase storica nuova per la Repubblica contro chi la serviva?
La Seconda Repubblica è nata sul sangue dei servitori dello Stato. L’agenda rossa è il simbolo di un passaggio importante della nostra storia recente, non solo politico ma anche istituzionale, che si fece a suon di bombe, con Capaci, con via D’Amelio e con le stragi del ’93, fino all’ingresso in campo di Berlusconi nel ’94. La collega Rizza ed io abbiamo voluto scrivere questo libro per dare una visione più contestualizzata, per far comprendere una vicenda che non è legata solo alla cronaca giudiziaria, al puro dato omicidiario.
Come furono gli ultimi giorni di Paolo Borsellino?
Studiando le fonti e i materiali abbiamo scoperto che la realtà di quegli ultimi giorni supera la più fervida fantasia del migliore dei tragediografi greci. Lo dico senza retorica, sia chiaro, ma Borsellino andò incontro alla morte con la consapevolezza del martirio. Dopo la morte di Falcone, chi lo vedeva da vicino si accorse che cambiò umore. Sentiva il fiato sul collo.
Borsellino era il vero erede di Giovanni Falcone?
Glielo disse il presidente Francesco Cossiga, e Cossiga lo disse a me in una telefonata. Mi raccontò che in un incontro che ebbero in quei giorni gli disse: “se lo metta in testa, lei è l’erede di Falcone, lei e nessun altro”.
Con una valenza di bacio della morte, per lo meno a posteriori.
Beh, il dato di fatto è che sicuramente Borsellino fu sovraesposto in quei giorni. Come se tutta l’antimafia di questo Paese fosse stata concentrata in un uomo solo.
E la mafia se ne accorse, evidentemente.
La mafia se ne accorse, e se ne accorse chi si servì della mafia. Ed è di questi ultimi che non sappiamo ancora l’identità.