"Non sei tu, sono io". Questo ci ripetiamo mentre scorrono davanti ai nostri occhi grondanti lava le puntate della stagione d'esordio di Summer Job, il primo reality italiano made in Netflix. Il prestigioso cast è composto da dieci ventenni che non hanno orgogliosamente voglia di lavorare: si ritrovano in un resort extra-lusso del Messico, invitati con la scusa di una vacanza da sogno. Invece, a 24 ore dall'arrivo, il brusco risveglio: per il mesetto a venire dovranno provare la sensazione del sudore che zampilla dalla fronte, imbarcandosi in lavoretti estivi tanto umili quanto faticosi. Chi riuscirà a superare tale battesimo del fuoco senza scappar via frignando, vincerà l'edizione e si porterà a casa un montepremi di (circa) 100mila euro. Dopotutto, non male come primo stipendio. Siamo i soli ad avvertire un certo prurito?
Sulla falsariga de Il Collegio e di altri reality simili che oramai la gente si è stufata di guardare perfino sulla generalista, Summer Job è la versione ancora più cafona e distorta del ritratto che la tv tende a dipingere dei giovani nostrani. Se, però, trovarsi davanti un 15enne che non ha voglia di sudare sui libri risulta comprensibile, vedere ragazzi con diritto di voto pensare solo a parassitare sulle spalle dei genitori (per altro, non sempre abbienti) per sbronzarsi alle feste è, e non può che essere, raggelante. Anche perché non tutti i concorrenti (sì, non citarli per nome è una scelta) sono nati con la camicia: all'infuori del tizio con gli occhialoni che vive su una guglia del Duomo di Milano, gli altri arrivano da famiglie comuni, quando non decisamente umili. Poco importa, finché mamma e papà riescono a garantir loro una paghetta settimanale per foraggiare gli stravizi del weekend. E finché possono mantenere la loro daily routine settimanale. Che comincia con la sveglia alle quattro del pomeriggio.
Non siamo certo così naïves da credere a ogni parola che esce dalle boccucce di questi lavativi soggettoni, immaginiamo bene che 9 su 10 ci sarà dietro un copione "ben" scritto. Allo stesso tempo, il fastidio è epidermico. Senza stare ad attaccare pipponi su quanto sia sensibile il tema giovani e lavoro nel nostro Bel Paese, ci chiediamo davvero perché sia sempre e solo l'Italia peggiore ad avere esposizione mediatica, cachet e possibilità di continuare a vivere nell'agio. Sì, perché 'sti scappati di casa, grazie all'avventura sulla piattaforma della grande N, mettono in saccoccia un futuro quasi assicurato.
La visibilità che Netflix ha deciso di regalare a questi fenomeni (da baraccone), garantirà loro un direttamente proporzionale aumento di follower su Instagram e quindi, per chi già non ce l'ha, la possibilità di smarchettare tisane detox e alghe tonificanti via Instagram. Dietro pagamento. Potranno diventare brand ambassador di prestigio, oppure carne da reality prossimi venturi, i classici "Ma chi?" di ogni edizione del Grande Fratello Vip. Ossia, la maggior parte del cast.
In questo modo saranno messi in condizione, chi più chi meno, di realizzare il sogno di non lavorare nemmeno un giorno delle loro beate vite, esattamente come speravano. Succede così da sempre, inutile indignarsi oggi. Pur se donchisciottesco, non possiamo però evitare di farlo, di dirlo, di scriverlo sui muri. Netflix aveva la possibilità (e il budget) di produrre qualunque format come primo reality tricolore. Ha scelto di dare spazio a qualcosa di già visto, peggiorandolo su tutta la linea. Ed era ben difficile dare alla luce un freak show di più criptonitico di Riccanza. Anche la scrittura non aiuta: nei testi della conduttrice Matilde Gioli, ci sono più ripetizioni che in Don Matteo, come se il target di riferimento fosse gente che porta la dentiera. Altra imperdonabile pecca, la completa mancanza di ironia. Per intenderci: sarebbe stato meno fastidioso se a commento del "gioco" ci fosse stata la voce fuori campo di Costantino Della Gherardesca? Probabilmente sì.
Summer Job è un'occasione persa per tutti. All'infuori di chi, lavorando al programma, si è potuto concedere un mesetto in Messico all inclusive. Sòla ai telespettatori compresa. Telespettatori che potrebbero pure prenderla più alla leggera, farsi una risata. Invece, dispiace ma fino a una certa, stavolta no. Stop making stupid people famous.