Per due euro un bicchiere di vino. Torino è ferita a morte. Sfilavano la bottiglia di vetro verde da un carretto improvvisato nel mezzo di piazza Santa Giulia, oggi per metà blindata dalle camionette della polizia. Era una sera di tanti anni fa, erano una coppia di scoppiati con i dred e i piercing, una di quelle sere d’estate in cui si scoppia di caldo. Evidentemente dei punkabbestia di Askatasuna, che prima di riempirmi il bicchiere di plastica attaccano con un discorso del tipo “devi sapere che questi soldi noi li raccogliamo per…”. Li interrompo, non mi interessa. Sorridendo la ragazza con la voce rauca da alcolizzata mi porge un biglietto con su scritto qualcosa tra le dita dalle unghie rosicchiate dalla paranoia. Me lo infilo in tasca. Quando il giorno dopo mi sveglio con un cerchio alla testa cerco nella giacca le sigarette e vi ritrovo il biglietto della sera prima tutto accartocciato. Lo dispiego e leggo: “questo è un vino artigianale prodotto in (…) tutti i soldi raccolti sosterranno la causa della nostra sorella Natascia Savio in regime di 41 bis per aver spedito un pacco bomba al pm di Torino”. Occ**o, pensavo ancora in mutande sul balcone nell’aria bollente del pomeriggio, ho finanziato dei terroristi. Questa era Askatasuna. Una banda di scappati di casa in grado di creare dei problemi allo Stato. Il dott. Cospito, ancora oggi al 41 bis, ad esempio tentò uno sfortunato attentato alla caserma dei carabinieri di Fossano (dicasi Fossangeles in gergo provinciale), ed era uno di loro. Quell’armata Brancaleone di tipi strani che non si è mai capito bene cosa facessero di preciso per vivere.
Dal movimento no Tav ai Black Block attivi un po’ in tutta Italia, rappresentavano una casa per scappati di casa provenienti dalla provincia nostrana e del mondo, simpatizzanti del terrorismo islamico e del Pkk di Ocalan, ma pure filosofi, viaggiatori, globetrotters, ravers. Signori della sinistra extraparlamentare torinese che attiravano come in un vortice di follia quei giovani provinciali dell’entroterra cattolico piemontese, desiderosi di rifarsi una verginità spirituale e di trovare un centro di gravità permanente in quella misteriosa città che era, ed è, Torino. Oggi però fa un freddo cane, è passato un po’ di tempo da quella sera d’estate e nella città di Torino sta per succedere qualcosa, sta per essere reciso un cordone ombelicale come mai è accaduto prima. Non è solo la questione di Askatasuna, sgomberata e blindata dai poliziotti che oggi la presidiano come si presidia una cava di uranio. Ma è qualcosa di più profondo, c’è qualcosa di tellurico nel sottosuolo. Camionette blu, barriere antisfondamento in acciaio dipinte di nero sul retro della via, transenne alte due metri con base in cemento, poliziotti che ti guardano storto e ti dicono che “qui non c’è niente da vedere”. Un vero e proprio cliché. Il silenzio in cui si trincerano i piemontesi quando sta succedendo qualcosa di grave, è il silenzio di chi può occuparsi di un problema alla volta e che se può farlo si limita a mandarti al diavolo, a denti stretti, oppure ti risponde sgarbatamente, come i commessi frustrati del supermercato. E’ un silenzio, quello dei torinesi – che son cortesi sì, ma ti guardano storto, non amano i giornalisti, anzi li disprezzano quando li vedono aggirarsi per le vie di Vanchiglia est, militarizzata come Berlino – che ricorda un po’ quello dei siciliani. Torino come Palermo e al tempo stesso Kabul. “Non c’è niente da vedere” ripete fissando un punto nel vuoto il poliziotto. Alle sue spalle, dietro la sua uniforme, dietro le camionette blu, dietro le transenne d’acciaio alte due metri e mezzo con base in cemento antisfondamento c’è la fortezza rossa ormai espugnata.
Una Costantinopoli le cui mura sono finalmente crollate, il patto con il comune è finalmente saltato, l’incantesimo stroboscopico e ketaminico spezzato. Uno scheletro stanco dove non c’è più nessuno di quei ragazzi ottusi imbottiti di ogni droga possibile, pieni di livore verso lo Stato, ovvero quell’organizzazione burocratica che detiene il monopolio della violenza (recitano i dizionari sociologici), e che un giorno sì e uno no occupavano il Campus Luigi Einaudi con il benestare di buona parte dell’intelligenzia accademica. Quegli studenti di lettere, filosofia, storia, ammassati a Palazzo Nuovo, simbolo decadente del sessantotto, progettato dal modernista Levi-Montalcini oggi circondato di fast food e altri prodotti collaterali della lotta di classe e della società aperta popperiana.
Sono giorni che piove, ma da stamattina è uscito il sole. La luce corrusca che irrompe tra le viuzze della Vanchiglia militarizzata è accecante, l’asfalto le mura le automobili sono bianche di gesso, le persone sono dei manichini in gesso bianchi, strabuzzano gli occhi dopo giorni di oscurità come sotto una luce finnica, una luce bianca elettrica da banco di laboratorio per la vivisezione di cavie da esperimento. Una luce spettrale che piove da un sole freddo e bianco inchiodato nel cielo azzurro, ma non c’è niente da vedere, anche se il treno dei pensieri all’incontrario va. Le serrande di tutta Santa Giulia sono abbassate, è giorno d’altronde. E’ un quartiere che si sveglia di notte, pieno d’insonnia e di solitudine. Un quartiere di persone che pur di non tornarsene a casa sole rimarrebbero in piazza a congelare tutta la notte andando avanti con quei bicchieri di vino a due euro venduti dal carretto nel mezzo di piazzetta Santa Giulia.
Un quartiere blindato dai tempi del covid, dove gli antagonisti, anarchici, insomma chiamateli come volete, avevano opposto la resistenza più strenua alle restrizioni imposte dal panpticon di Giuseppe Conte e poi dal più mite Mario Draghi. Gli stessi che poi, nell’omertosa città sabauda sono riusciti in quella misteriosa incursione in via Lugaro, nella sede de La Stampa, a San Salvario, sotto il naso della piccola stazione di polizia a meno di dieci metri di distanza. Sullo stesso marciapiede, poi, di quel casermone in cemento armato dagli spigoli vetrati in brise-soleil che in ripresa all’andatura obliqua delle scale genera un’illusione ottica a sbalzo per chi osserva dal basso. L’intonaco, però, si sta scrostando vistosamente, giusto in tempo per il passaggio di mano con i nuovi editori, i Nem per La Stampa, il greco Kyrakou, il socio di Bin Salman per Repubblica.
Quello che era un tempio industriale del giornalismo, dove le copie dei quotidiani venivano (e vengono tutt’ora, ma chissà ancora per quanto tempo) stampate in serie durante la notte come le auto della Fiat, prima nella sede storica e in stile liberty nei pressi del parco del Valentino, poi al Lingotto, poi a Mirafiori e oggi da nessuna parte, cioè all’estero, che per un piemontese non esiste ed è solo un esotico e salgariano sogno ad occhi aperti da scacciare via come un moscone, una zanzara, un piccione che non vuole levarsi dai piedi. Quell’intonaco che continua a scrostarsi, a sgretolarsi, dall’alto del suo osservatorio privilegiato in quella San Salvario stritolata tra l’acciaio della ferrovia e le lamiere prodotte in serie, ha visto uscire dall’ex stabilimento Osi-Ghia – da sempre è il fatiscente vicino di casa di La Stampa in via Lugaro – le carrozzerie delle Fiat 1500 e 1600 coupé, delle Spider e di tutta quella roba prodotta esclusivamente per Gianni Agnelli che poi, dopo la crisi petrolifera e il cambio del paradigma produttivo, ha semplicemente abbandonato lì, come un giocattolo che non serve più. Abbandonata a sé stessa, l’ex Osi-Ghia, ancora oggi, con quel suo comignolo affumicato in mattoni rossi, pericolante, e occupato da senzatetto e zingari che stendono i loro panni nel mezzo del cortile del vecchio stabilimento o dalle finestre del vecchio centro direzionale. Ora, però, Torino è pronta a recidere il cordone ombelicale con tutti i ricordi, con l’album di famiglia Agnelli, ora che Elkann sta abbandonando la nave.
A guardarsi indietro c’è troppo dolore, ci sono le macerie, e quell’Avvocato che molto cinicamente si sostituì all’aristocrazia sabauda con la Juve, la Fiat, le sue colonie estive, il giornale La Stampa, Repubblica, Gedi, non c’è più. Rimangono soltanto una serie di quartieri ex-operai orfani di padrone. Il più antico fra questi è proprio San Salvario, dove a girovagarci per ritrovare un appiglio solido in un mondo che sta per tramontare, si ritrovano solo i famigliari sputa-palline africani che se ne stanno come guardiani con l’auricolare agli angoli delle vie strette e umide, in ombra tutto l’anno, ascoltando le istruzioni dei loro ras, accanto alle prostitute di via Ormea, accanto ai supermercati aperti ventiquattr’ore su ventiquattro e utilizzati come deposito durante le retate notturne della polizia. Con piccole caramelle di crack tenute nascoste sotto la lingua, se ne stanno lì, pronti ad ingoiarle alla prima perquisizione o a venderle ai disperati senza denti e senzatetto che si aggirano per il quartiere. Rimane poi il palazzo del Melograno, in via Argentero, che gli agenti immobiliari dicono sia stato progettato da Pietro Fenoglio, il celebre architetto del liberty torinese, quello stile architettonico che in Italia fu solo un manierismo per il ritardo nell’accedere alla tecnologia del cemento armato e che oggi sopravvive con una chiassosa autorimessa nel cortile. Ma resistono anche le cacche dei cani sui marciapiedi, i graffiti “liberate Habdullah” nella piazza del mercato alla fermata Nizza della metro accanto alle cassette vuote della frutta, dove alle quattro del pomeriggio c’è ancora puzza di pesce anche se di pescivendoli non ve n’è più nemmeno l’ombra. Rimangono le aule studio che tengono aperto come i kebabbari fino alle 3 di notte per gli ingegneri pakistani del Politecnico e gli studenti di medicina senza fissa dimora nei pressi del museo di Cesare Lombroso affacciato sulla gemma verde del Valentino. Ma Torino è una città che sta svanendo, come un sogno, mentre rimane sempre uguale, ipocrita, filo-francese, piena di sudditi frustrati, orgogliosi, riservatissimi.
Come l’ex Microtecnica, che produceva turbine per i jet militari americani su cui la Meloni prima delle europee aveva posto il veto del golden power e appena passato il momento di maggiore esposizione non aveva tardato a cederla per due lire ai francesi di Safran, amichetti Peugeot di John Elkann, il cui stemma ora svetta sulla facciata ripulita, sotto la bandiera italiana mossa dal vento sul tetto dello stabilimento tirato a lucido. Perché non vi abbiano piazzato direttamente una bandiera francese non si capisce. E pensare che à coté di questa fabbrica di componentistica per l’aeronautica militare dei nostri amici-nemici francesi è ospitato il centro sociale di Casapound, Asso di Bastoni, che anch’esso, insieme a tutto quel mondo che svanisce, resiste e digrigna i denti per tutte quelle moschee istituite come associazioni culturali con solennità nei garage delle case affittate agli universitari arrapati e un po’ alcolizzati, tutto attorno alla sinagoga assediata dall’antagonista – l’Islàm, ça va sans dire – e quindi militarizzata. E’ la fine di un’epoca per la città, senza più rivoluzionari, senza più l’Avvocato, rimangono i generali di palazzo Arsenale, i carabinieri di corso Sebastopoli, la questura, le puttane, gli spacciatori di crack, gli ingegneri pakistani del politecnico, i nipoti del 68 dalla confusa identità sessuale e i veri eredi di tutto questo, i kebabbari.
E’ caduta Askatasuna, non c’è più la Fiat, non c’è più Stellantis, non c’è più il gruppo Gedi, non c’è più l’Avvocato, ci rimangono il cardo e il decumano, viali e controviali, marciapiedi sotto dei quali si nasconde una spiaggia immaginaria dove Marco Valdo si allontana dalla riva, tra le acque del Po, mentre si gode gli effetti pseudo-terapeutici dei sabbiamenti. Ma Torino sarà veramente finita quando al posto dei semafori – quei semafori che nessun preposto ha mai sincronizzato nella cosiddetta onda verde, perché il rosso del semaforo è il rosso dell’Unione Sovietica – a ciascun incrocio verrà posta una rotonda. A quel punto la provincia filo-francese avrà conquistato l’ex capitale, l’antico accampamento romano, e a quel punto gireremo tutti in tondo, senza bisogno più di fuggire, senza più bisogno di andarcene da nessuna parte.