Un altro mistero in uno dei casi più bui della storia della Repubblica, l'attentato in cui morì il giudice Paolo Borsellino. Nella sentenza del 12 luglio 2022 e durante il processo intorno all’ipotesi di depistaggio delle indagini su via D’Amelio, si era messo agli atti un ulteriore elemento che si aggiungeva, e aggravava in questo modo, la scia di omissioni e tentativi di sviare le autorità impegnate a far luce su una delle stragi simbolo della lotta alla mafia. A parlare è il consulente tecnico Gioacchino Genchi proprio durante il processo: “Il traffico telefonico del cellulare di Paolo Borsellino in entrata è stato fatto sparire”. Ormai non c’è nessun dubbio su questo. Oltre all’agenda rossa del giudice anche i tabulati telefonici sarebbero spariti. Non sono dettagli. Soprattutto se ci si chiede cosa nascondesse l’elenco delle chiamate. Un nome che andava nascosto? Forse quello del traditore di cui parlò il giudice poco prima di morire? Noi ce lo siamo chiesti. Qualcuno che poteva arrivare al cellulare dopo la morte di Borsellino ha deliberatamente cancellato la lista delle chiamate ricevute dal giudice prima della strage. La notizia, già sostenuta da tempo, viene ripresa anche negli atti del processo finito con la prescrizione a Mario Bo e Fabrizio Mattei e l’assoluzione di Michele Ribaudo, tre poliziotti del gruppo “Falcone-Borsellino” per il reato di calunnia aggravata. È un altro mattone che si aggiunge al muro di interrogativi riguardanti il periodo delle stragi di mafia. A essere determinante è stata la testimonianza proprio di Genchi, consulente di varie procure e al tempo componente della squadra investigata coordinata da Arnaldo La Barbera. Durante l’udienza dell’11 gennaio 2019 raccontò di quando si accorse e segnalò l’assenza dei tabulati telefoni in entrata del giudice Borsellino, facendo richiesta per averli allo Sco, il servizio centrale anticrimine della polizia. I giudici del tribunale di Caltanissetta hanno chiarito la gravità di questa sparizione: “Non vi è dubbio che si tratterebbe dell’ennesima sottrazione di elementi utili alla ricostruzione della strage di Via D’Amelio. […] Il non avere a disposizione le chiamate in entrata sul telefono di Borsellino, ha indubbiamente sottratto importanti piste investigative che se percorse subitaneamente avrebbero consentito di ricostruire più agevolmente gli ultimi giorni di vita del magistrato senza dover ricorrere, a distanza di molti anni, ad assunzioni testimoniali che per loro natura – a prescindere dalla buona o malafede del dichiarante – si prestano a maggiori imprecisioni”. Contra factum non valet argumentum. Il buco lasciato da questo ennesimo tentativo di depistaggio appare insanabile.
Come spiega Genchi, al tempo venivano stampati due elenchi separati delle chiamate in entrata e in uscita dei telefoni cellulari dei soggetti coinvolti nelle indagini. Le chiamate in entrata, oltre a costituire circa metà delle conversazioni totali, quindi metà storia, sarebbero state utili anche per capire chi avesse cercato o meno Paolo Borsellino prima di quel 19 luglio 1992. La pista dell’errore umano è stata scartata con totale sicurezza. “Tutti i tabulati acquisiti, dico tutti i tabulati acquisiti, sono agli atti: quelli di Falcone, quelli degli indagati, quelli di Scotto, quelli di Contrada. […] Il traffico telefonico del cellulare del dottor Paolo Borsellino è stato fatto scomparire. Non è mai stato conferito al gruppo di indagine Falcone e Borsellino, non è mai stato depositato agli atti dei processi e non si troverà da nessuna parte. Al punto tale che poi si è pure a momenti tacciato di falsità un suo collaboratore, mi ricordo il maresciallo Canale, che dice ‘Ma io l’ho chiamato’, ma queste chiamate non risultano. Ma non potevano mai risultare le chiamate di Canale nei tabulati di Borsellino se il traffico in entrata è stato tolto”. La testimonianza di Genchi è irrefutabile. Ma apre a molte domande. Nel 2012 l’ex pm Alessandra Camassa, chiamata come teste durante il processo Mori a Palermo aveva raccontato di un incontro con Borsellino e Massimo Russo, un altro ex pubblico ministero che ai tempi lavorava con lei in Procura. “A fine giugno del 1992 io e il collega Massimo Russo avemmo un incontro con Borsellino. Era un dialogo normale, si parlava di indagini. A un certo punto lui si alzò, si stese sul divano e cominciò a lacrimare e disse: 'Non posso credere che un amico mi abbia tradito'. […] Ebbi la sensazione netta che avesse ricevuto da pochissimo una notizia e che fosse ancora sconvolto. Tanto da sfogarsi con le prime persone entrate nella sua stanza”. Sfortunatamente, stando alle parole di Camassa, Borsellino non diede il nome e loro non lo chiesero: “C’era una sorta di imbarazzo, ed ero così imbarazzata che quasi cambiai discorso. Pensai a uno sfogo personale e non volli essere invadente e però se fossi stata chiamata a testimoniare prima probabilmente l’avrei detto”. Un altro elemento emergerà da quelle dichiarazioni. Riferendosi al braccio destro di Borsellino, Carmelo Canale, la Camassa dirà: “Più volte l’ultima il 4 luglio del 1992, in occasione della cerimonia di saluto a Marsala – il maresciallo Canale mi disse che Borsellino a suo avviso si fidava troppo dei vertici del Ros”.
I nomi non uscirono mai. Né del traditore né di chi, ai piani alti dell’unità d’élite dei Carabinieri, Borsellino sbagliava a fidarsi. In sede di testimonianza la Camassa nominerà uno dei responsabili in quel periodo dell’Alto Commissariato antimafia, Angelo Sinesio, che le chiederà ripetutamente delle ultime piste vagliate dal giudice: ““Dopo la strage di via D’Amelio mi chiamò per chiedermi di incontrarci e nel corso di un incontro mi fece un sacco di domande sulle ultime indagini di Borsellino. Era insistente, voleva sapere se erano venuti fuori elementi sull’imprenditore agrigentino Salamone e sul ministro Mannino”. Come riporta l’Ansa, un riferimento a questi tabulati era presente in un’informativa del gruppo “Falcone-Borsellino” in cui si parlava di un contatto tra il procuratore Giovanni Tinebra e Paolo Borsellino risalente al 19 aprile del ’92. Tinebra, procuratore di Caltanissetta la cui condotta durante le indagini è stata più volte oggetto di controversia, a partire dall’appalto delle prime piste investigative al SISDE e a Contrada, che stando alla testimonianza del giudice Ingroia era colluso con Cosa Nostra (“La sera stessa dell'attentato mi trovai con alcuni colleghi, Maria Teresa Principato e Ignazio De Francisci, a parlare nei corridoi, seduti su una panchina. Mi dissero che il sabato del 18 Paolo si recò in tutti gli uffici dei magistrati, come una sorta di commiato. Disse loro che aveva interrogato il collaboratore Gaspare Mutolo e che questi, fuori verbale, gli aveva anticipato di voler fare delle rivelazioni su uomini dello Stato che erano collusi con Cosa nostra. In particolare fece i nomi di un magistrato, Domenico Signorino, e di un alto funzionario del Sisde e della Polizia, Bruno Contrada. Queste cose le dissi a Tinebra che non mi sembrò particolarmente impressionato da quel che dissi. Ci lasciammo con un saluto cordiale e lui disse che mi avrebbe chiamato prossimamente per verbalizzare”).
Bisogna fare un passo indietro e tornare alla frase di Borsellino: “Non posso credere che un amico mi abbia tradito”. Un amico. Legare quanto emerse dalla testimonianza della Camassa nel 2012 alla conferma ufficiale della sparizione dei tabulati telefonici in entrata porta a porsi delle domande: forse nell’elenco delle chiamate in entrata c’era il nome del traditore? Un amico, presumibilmente dell’ambiente di Borsellino quindi, venuto a sapere delle rivelazioni di quegli ultimi giorni, dei nomi che Murolo avrebbe fatto, del coinvolgimento delle istituzioni in affari di mafia che, secondo Ingroia, venne sempre sottodimensionato dall’allora procuratore Tinebra?