Maurizio Costanzo, ovvero quando era la televisione a creare i personaggi e, quindi, i relativi follower. Apparizione dopo apparizione, magari in quella fascia oraria in cui la seconda serata tendeva a farsi terza, un momento della giornata stretto e sospeso, come una fessura in cui solo chi è davvero agile può inserirsi senza apparire goffo. La borghesia più “regolare”, per le 23 circa, aveva già guadagnato il letto matrimoniale, saziata da un filmone, da uno sceneggiato, dalla serata di coppe del mercoledì o da un Minoli in vena di esclusive. Un’altra fetta di borghesia – un peculiare misto di viveur, nottambuli, annoiati, malpensanti e curiosoni – invece era ancora sveglia ad aspettare il pianoforte di Franco Bracardi. E Maurizio Costanzo, appunto, supremo boss del proprio “show”, la volpe beffarda del giornalismo televisivo italiano. Ghignava, rampognava e rifletteva. Tutto in diretta. Soprattutto, ascoltava le storie, le congetture e le sparate di decine di istrioni, carneadi diventati qualcuno e professionisti del consenso pressoché unanime (i più amati dagli italiani). Su quelle storie Costanzo meditava, architettava. Così creava future celebrità o eccentriche meteore. Quando poi le voleva amplificare e dilatare, quelle storie, si inventava gli “uno contro tutti”, spettacoli in cui qualcuno – in genere la “q” era maiuscola – affrontava, da solo, il Teatro Parioli accettando di poggiare il sedere sul rovente barbecue delle altrui opinioni/osservazioni. Una forma di “roast”, grosso modo.
I VOLTI CELEBRI
Per preservare l’umore agrodolce del "Costanzo Show" erano necessarie figure che garantissero polemica, leggerezza e un pizzico di scandalo. Il palcoscenico era affollato di menti fervide, pesi massimi del mezzo televisivo, attori e funamboli del “dire” prima ancora che del più ambizioso e solenne “comunicare”. E se media e cronaca, per qualche ragione, non consegnavano a Costanzo la faccia giusta, ci pensava lui ad estrarla dal cilindro. Nell’ottobre del 1987 si inventò Vittorio Sgarbi. Spocchioso e privo d’ironia (Alessandro Rostagno, scelleratamente, si sarebbe invaghito proprio di quello Sgarbi), agli esordi era solo il giovane e dotto critico d’arte che si aggiustava la pettinatura svolazzante. Poi crebbe fino a dilagare, fustigando i consunti mores della vecchia televisione – quella Rai lottizzata ma così educata che mai avrebbe potuto concepire o accettare il celebre e divertito “Mike Bongiorno è come Dio e Dio non si discute” – e difendendo a spada tratta Silvio molto prima che Berlusconi si munisse di un Niccolò Ghedini. Troppo scontato iniziare da Sgarbi? Allora è forse meno scontato ricordare quanto Costanzo amasse i comici e, di tanto in tanto, provasse a tastare il polso della nuova canzone italiana. Ieri, su Facebook, Marco Masini scrive: “Quando ti cantai “Caro babbo” ti feci uscire una lacrimuccia, oggi me la fai uscire tu”. Francesco Baccini, l’antiretorica per eccellenza, aggiunge, fuori dai social: “Il Costanzo Show è stata la prima trasmissione che mi ha fatto conoscere al grande pubblico. Ero preoccupatissimo all’idea di dover solo parlare, tuttavia il feeling fra me e Costanzo fu immediato, parlai tipo un’ora filata. Alla fine mi chiese di suonare un paio di canzoni e Bracardi mi lasciò la tastiera. In quel 1989 fui il primo a portare musica al suo show. Il rapporto con Costanzo, negli anni, sarebbe proseguito. Mi cercò ancora, a inizio anni 2000, quando stava ideando una “Buona domenica” più seria. Alle musiche avremmo dovuto pensarci io e Alex Britti, ma alla fine non se ne fece nulla e, molto gentilmente, si scusò. Ci siamo sempre stimati”.
La musica in tv. Una rarità anche allora, ma meno di oggi. E se i rapper tutti insieme appassionatamente sul palco del Parioli oggi forse risulterebbero “cringe” (quando il “non strettamente mainstream” o il “gggiovane” era ospite dello Show, la sensazione era quella di vedere un villaggio della vecchia America invaso dagli ultracorpi), è pur vero che il fiuto di Costanzo per i nuovi comici di rado sbagliava obiettivo. Il primo Enzo Iacchetti, ispirato da Gaber e Jannacci, dopo anni di Derby esplose proprio al Parioli grazie alle sue poesie bonsai, paradossali freddure che di certo non preannunciavano ciò che Iacchetti sarebbe diventato con Striscia. I rumori e i doppiaggi di Dario Bandiera, le canzoni di Dario Vergassola, il surrealismo di Gianni Fantoni, il teatro di Gioele Dix, le sacre scritture riviste da Giobbe Covatta e le picaresche divagazioni di David Riondino fecero il resto. Tutti pupilli di Costanzo, che amava il nuovo vento (non dimentichiamo che invitò anche Nik Novecento), ma, altrettanto, godeva – immaginandosi su una di quelle terrazze stile “La grande bellezza” – nel fare quattro chiacchiere compassate, talvolta perfino reticenti, con un Sordi, un Proietti, un Villaggio, un anziano Ingrassia che, da uomo del profondo sud, una sera sganciò una perfetta battuta alla Wodehouse. Gli piacevano i divulgatori pop, a Costanzo. Francesco Alberoni, ad esempio, che continuò a proporre al pubblico televisivo anche quando ormai le celebri intuizioni alberoniane legate all’amore e all’innamoramento si erano giustamente e ragionevolmente affievolite. Così provò la carta Willy Pasini, professione sessuologo, figura pacata a cui chiedeva di riportare ordine quando le conversazioni sul sesso finivano in caciara e tutto si confondeva. I travestiti con i transessuali e l’eros col porno; un’opposizione, quest’ultima, su cui un certo Giampiero Mughini fece accorati, letterari e sacrosanti distinguo (in sostanza: non pensiamo che l’opposizione sia fra soft e hard; esiste un eros dozzinale così come un porno che tende all’artistico). In seguito avrebbe dato spazio a Raffaele Morelli, lo psichiatra e psicoterapeuta che “liberava” le donne dal mortale giogo delle proprie quotidiane oppressioni (sarà stato un po’ paternalista, forse eccessivamente etereo, visto che dall’altra parte, ad ascoltarlo, poteva esserci la famosa shampista di Gallarate con la vaschetta di gelato fra le mani e la disperazione nel cuore, ma Michela Murgia ci capì poco o nulla quando provò a farlo passare da sessista). Il radar di Costanzo, di norma, intercettava una competenza che fosse televisivamente spendibile. In Ermete Realacci, ad esempio, al di là del ruolo in Legambiente, vide un comunicatore limpido e credibile. Una voce che poteva “arrivare” nonostante il messaggio che gli premeva veicolare non fosse sempre semplice da decodificare.
LE METEORE
Ma lo Show non era solo affollato di nomi e cognomi, di nuovi volti da copertina. A fare compagnia ai big c’era una schiera di figure “al limite” (al limite di che cosa, esattamente, lo decide lo spirito del tempo. Oggi la metà di loro avrebbe migliaia di follower su instagram), figure che rappresentavano una porzione d’Italia esclusa dalle rotte mainstream. Una parte di Paese che, a differenza di oggi – in cui una condizione psicopatologica è senza dubbio un buon biglietto da visita per sbarcare sui social –, sfidava l’everest della normalità con una notevole dose di ingenuità. Poteva anche vincerla quella sfida, ma di certo questo non toglieva a quegli interpreti (i più esacerbati detrattori di Costanzo li chiamavano “freak”) il ruolo di outsider. Outsider e meteore. Come Paolo Bigoni, ferrarese ora “mediaticamente disperso”. Nei primi ’90 soddisfò la curiosità ancora diffusa, all’epoca, per la gayezza più stravagante e circense. Angelo Piovano, ex operaio alla Pirelli scomparso nel 2021, fece il suo primo tatuaggio più trent’anni fa per ricordare la morte della sua cagnolina. Da allora non si sarebbe più fermato, fino a ricoprire completamente il corpo di tatuaggi e piercing. Costanzo lo mostrava a un’Italia che faticava a sostenerne lo sguardo. Sonia Cassiani, promotrice di una viziata verginità, era la stizzosa ragazza con il volto da inglesina settecentesca che avrebbe infiammato anche Gandhi. Non durò tanto, ma in quegli anni ’90 di transizione Costanzo provò a giocarsi anche la carta che portava il suo nome. Sono solo tre fra i tanti personaggi (aggiungiamoci i terrapiattisti ante-litteram, i cartomanti, gli analfabeti dell’occulto) che al Parioli giocavano a stuzzicare e minacciare il benpensare della maggioranza silenziosa. Del resto il "Costanzo Show" è stato il luogo dove la femminista Elvira Banotti – perdonatemi, sto solo ipotizzando, ma qualcosa del genere è senz’altro accaduto – poteva dialogare con Tinto Brass in attesa che Fiorello si prendesse una decina di minuti per trasformare il palco in un villaggio turistico. La società italiana tutta, sul palco, a ridere o irritarsi, a piangere o ragionare, proprio come piaceva a Costanzo, che da sempre inseguiva un sogno: portare in tv l’intero ventaglio delle umane emozioni.
GLI “UNO CONTRO TUTTI”
Dove un solo uomo o una sola donna si confrontava con l’intero pubblico, un misto di gente comune e addetti ai lavori. Credo che Sgarbi sia stato protagonista di un “Uno contro tutti”. Di certo lo è stato Paolo Bonolis. In quella occasione scazzò pesantemente con Cecchi Paone, ma a parte quell’episodio mostrò, come dicono gli esperti, un’invidiabile padronanza della grammatica televisiva. Tutti però – ed è forse stata questa una delle magie di Costanzo – ricordano l’uno contro tutti che ebbe protagonista Carmelo Bene. Certamente non all’apice della carriera, un Bene anziano ma non meno visionario, giocò con la filosofia e la semantica per quasi due ore davanti a un pubblico che non aveva mezzi per rispondere o argomentare. Fu un gioco bizzarro e fuori dal tempo: l’intellettuale, con fare aristocratico, si faceva beffe dei “normodotati” usando (e abusando di) termini ormai rari, persino aulici, che stridevano con quel contesto “di massa”. Giulia Cavaliere (Esquire, Rolling Stone; classe 1985) sulla sua pagina Facebook: “Il mio incontro con l'arte di Carmelo Bene avvenne grazie alla tv, e avrei scoperto anni dopo, per molti della mia generazione, della mia età, era stato così. Avrei letto di teatro, frequentato il teatro, studiato teatro all'Università e lo avrei fatto, anche grazie a un programma tv che andava in onda di notte su una rete Mediaset”.