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Vivere tra due basi Usa a Vicenza
nel mirino di Putin: sicuri che l’Italia
è libera di decidere da che parte stare?

  • di Alessio Mannino Alessio Mannino

28 aprile 2022

Vivere tra due basi Usa a Vicenza nel mirino di Putin: sicuri che l’Italia è libera di decidere da che parte stare?
Nella guerra fra Russia e Ucraina la questione da porsi non è chi ha ragione, ma fino a che punto il nostro Paese è libero di decidere la linea da seguire. E Vicenza in questo dilemma è uno snodo centrale, visto che ospita due basi militari dell’esercito americano: Camp Ederle dagli anni ’50 e Camp Del Din inaugurata nel 2013. Fra soldati e dipendenti civili costituiscono circa il 10% della popolazione cittadina, che conta 115 mila anime. È in questa città simbolica della nostra way of life – lavoro, lavoro, lavoro, schei e perbenismo di facciata - che si capisce meglio cosa comportano gli accordi bilaterali Roma-Washington che regolano le servitù militari a cui, tutti contenti, siamo assoggettati

di Alessio Mannino Alessio Mannino

Vivo a una manciata di chilometri da ben due basi militari dell’esercito Usa, e per la prima volta nella vita mi assale un certo timore di finirci secco. Chissà, centrato da un missile russo, ad esempio. L’alleato atlantico è accampato in Italia da settant’anni causa gratitudine obbligata per averci liberato dai nazisti e dai fascisti (che, ricordiamolo, appena qualche anno prima eravamo sempre noi, masse plaudenti sotto il balcone di quel Cesare di cartapesta di Mussolini). Vicenza è una perla sonnacchiosa del Veneto che produce molto e, come non si stancava di ripetere Vitaliano Trevisan nelle sue opere, pensa poco, troppo poco. La prima caserma, Camp Ederle, esiste dagli anni ’50 del Novecento, secolo che non sembra passare mai, mentre Camp Del Din venne inaugurato nel 2013. Entrambi ospitano i parà statunitensi al servizio dell’Africom, il comando del Pentagono per il quadrante sud che ha il suo quartier generale in Germania. Fra soldati e dipendenti civili, costituiranno circa il 10% della popolazione cittadina, che conta 115 mila anime. Nel biennio 2006-2007 questa città, per molti versi simbolica della nostra way of life – lavoro, lavoro, lavoro, schei e perbenismo di facciata, del resto è qui che ha avuto origine il catastrofico bluff della banca di Zonin – si era svegliata dall’abituale torpore antropodemocristiano contestando la segretezza, tuttora vigente, degli accordi bilaterali Roma-Washington che regolano le servitù militari a cui, tutti contenti, siamo assoggettati.

Si denunciava apertamente la nostra condizione di “colonia” e la scelta di Vicenza come capro sacrificale per insediare l’ennesima delle guarnigioni a stelle e strisce sparse un po’ in tutta la penisola. Attenti: non, almeno formalmente, basi Nato, ma esclusivamente americane. Fu un momento di vitalità, come sempre le lotte con largo consenso di popolo. Il 16 gennaio 2007 il governo di centrosinistra di allora, guidato da Romano Prodi, emise l’editto: il raddoppio nell’area Dal Molin (così si chiamava l’ex aeroporto) si fa, punto e basta. Ministro della Difesa era Arturo Parisi. Un moderato, per carità. Così moderato che di recente, in una intervista al Foglio, ha sostenuto che ormai l’Anpi, l’associazione partigiani, ha fatto il suo tempo essendo venuta meno la ragione sociale della sua esistenza. D’accordo, ma lo dice solo ora perché l’Anpi, solitamente intoccabile quando si limita a far da cane da guardia all’antifascismo rituale, ha osato assumere una linea critica verso la Nato.

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Militari americani nella base di Vicenza

Nei cortei dell’ultimo 25 Aprile abbiamo visto sventolare le bandiere Nato, mai viste in precedenza se non forse in qualche sit-in di atlantisti sfegatati à la Giuliano Ferrara, già al soldo della Cia. Non c’è da scandalizzarsi poi tanto: in un’epoca in cui ogni rispetto minimo della verità dei fatti è saltato, non ci si stupisce granché se qualcuno non sa, o finge di non sapere, che il Patto Atlantico è stato fondato quattro anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, e soprattutto contro uno dei Paesi, l’Unione Sovietica, che fu decisivo per la sconfitta della Germania di Hitler, fra l’altro pagando il più alto tributo di sangue nel suo sterminato territorio. È un vizio inestirpabile dell’ipocrita razza umana quello di piegare e deformare la Storia secondo le convenienze politiche contingenti: oggi serve equiparare la Resistenza dal nazifascismo alla difesa dell’Ucraina invasa dalle armate di Putin, e chi se ne sbatte se le due cose non c’entrano un bel niente.

“Me ne frego di morir”, cantavano le squadracce in camicia nera. “Me ne frego di mentir”, è il motto più o meno inconsapevole degli interventisti che vorrebbero infilarci là dietro, come per Cipputi, il famoso “ombrello Nato”. Che volete che sia se, a differenza del 1939, quest’oggi non si scontrano ideologie radicalmente opposte, visto che la Russia ha abbracciato da trent’anni il nostro candido capitalismo, al più virandolo, dopo i catastrofici anni di Yeltsin, verso un assetto dominato da grandi aziende di valore strategico, tipo le nostre Eni e Leonardo, legate a filo doppio al governo (e per forza, verrebbe da dire: la sua economia è uguale a energia+armi). Che importa se soltanto adesso Vladimir Putin diventa un mostro, un folle, l’ennesimo nuovo Hitler – ma quanti Hitler partorisce l’inesausta madre degli Hitler obsessed? – mentre fino a poco tempo fa era tutto sommato accettabile o, se retrocediamo di qualche altro anno, un partner addirittura affidabile (Pratica di Mare, anno 2002, nevvero Berlusconi?). Magari perché non si era messo a fare l’isterico per l’avanzata Nato nelle Repubbliche Baltiche, nell’Est Europa e nel Centro Asia, cioè perché non si era ribellato all’espansione, chiaramente e certamente difensiva, dell’Alleanza saldamente comandata dagli Stati Uniti.

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I parà della base di Vicenza in partenza per l'Ucraina

Cosa state lì a sottilizzare, voi “complessisti” e complessati di turno, se il paragone con la guerriglia partigiana è solo un escamotage retorico, una fake news di mera propaganda per far passare il neanche troppo velato messaggio che imperativo morale è soccorrere i neo-gappisti del battaglione Azov, simpatici esegeti di Kant con il pallino del neonazismo, rimpinzando di armamenti Zelenskij e così, di fatto, sia pur per interposta Ucraina, muovere guerra a Mosca. Ma sì, quei vessilli blu dei fanatici Nato sono benedetti, perché svelano un equivoco che dura dal 1945: in cambio del benessere economico, abbiamo svenduto gli ideali per cui i partigiani, con un patriottismo sincero che riscattava moralmente l’Italia dall’imperialismo straccione del fascismo, morirono sognando democrazia (chi liberale, chi cristiana, chi “popolare”, come si chiamarono poi i regimi comunisti che di democratico avevano pressoché nulla), non California. Ce li siamo messi sotto i piedi, sciolti negli allucinogeni del consumismo liquefatore che ci ha cambiati dentro, in misura molto maggiore delle ipnotiche parate a passo dell’oca, come diagnosticato dal profetico Pasolini fin dagli anni ’70. Li abbiamo barattati per sottostare a una fedeltà canina all’Occidente, questo moloch orwelliano che, puntellato dalla rete di basi americane, è l’ombra nascosta del cartonato a forma di Euro chiamato Europa.

Ma ecco che il famoso benessere, valore assoluto ammannito per decenni come superiore alla stessa vita, diventa una variabile trascurabile, un condizionatore da spegnere di botto in nome di parole - “diritti”, “democrazia” “libertà” - svuotate di significato. Che diritti sono i privilegi dei ricchi sederi che fanno pagare il conto del gas, mercato di feroce speculazione, ai più poveri, e quando dico poveri non intendo solo i clochards a cui fare il bel gesto dell’elemosina, ma milioni di lavoratori poveri alle prese con l’affitto o col mutuo, di piccole imprese affogate dalle rate, di giovani precari ammorbati dalla falsa coscienza dell’incartapecorita “classe dirigente”. Che democrazia è la mega-orgia trasversale che usa la Costituzione come carta igienica, puntando sulla guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, cioè esattamente il contrario di quanto prescrive l’articolo 11? E, di grazia, che libertà è dover rischiare grosso qui in Europa mentre là, oltre oceano, Biden e generaloni del mai sazio complesso militar-industriale giocano a Risiko con le nostre vite?

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Militari americani in esercitazione

Siamo liberi forse di ragionare a mente fredda, com’è doveroso in simili frangenti, cercando di circoscrivere il più possibile il pericolo con il proporre una soluzione digeribile per ciascun contendente anziché allargarlo a livello intercontinentale, o siamo liberi di essere spalle al muro, dovendo sorvolare sull’eventualità che qualche “arma di alta precisione e grande gittata” piombi sulla testa di chi abita vicino ai “centri dove vengono decise le azioni di Kiev”, cioè, secondo i russi, qua in Occidente? In cosa consiste esattamente la libertà conquistata 77 anni fa? Nell’allinearci sempre, comunque e contro chiunque desideri il gentile alleato che ci fa dono di una pelosa protezione da nemici di volta in volta ingigantiti a bella posta pur di salvare il suo impero sanguinante di dollari, belligeranza infinita e moralismo alla Abu Graib&Guantanamo, fialette farlocche e tutte quelle altre cosucce stile Wikileaks del guastafeste Assange, scaricato e dimenticato dai liberali a interruttore? Brava gente, vi domando e mi domando: io, che come parecchi di voi sto letteralmente a due passi dagli avamposti del fiero alleato, che ci faccio qui? Me la batto, o continuo a battermi? Chino il capo oppure resisto, munito delle sole spuntate armi della ragione, contro gli schiacciabottoni atomici che ci costringono a danzare sulla nostra tomba? Ché poi, diciamocelo fra noi: radioattivi come diventeremmo un po’ tutti, a parte forse il Polo Sud e il continente africano che solitamente emigra da noi, ma dove cazzo dovrei andare?

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