Se i programmi non cambieranno, entro il 2035 in Europa non saranno più immatricolate auto a benzina, diesel, gpl, metano e nemmeno ibride. Una circostanza presa in considerazione da Data Room: “In Europa – spiega Milena Gabanelli – l’Italia vende il 67% del suo export. Vuol dire che, se non facciamo nulla, 60 mila dipendenti in 500 aziende perderanno il posto”. Questo perché per produrre un motore elettrico serve il 30% di manodopera in meno. “Dove invece si producono componenti e motori per il diesel, lo stanno rischiando già adesso”.
“Questo motore – si legge nell’inchiesta pubblicata sul Corriere e firmata anche da Rita Querzè – non è quasi mai utilizzato per le auto ibride e la sua quota di mercato in Europa è passata dal 54% al 26% negli ultimi tredici anni. Inoltre ci sono case automobilistiche che hanno deciso di bruciare i concorrenti sul tempo passando all’elettrico prima degli altri. Tra queste c’è la tedesca Vitesco che sta investendo in Romania, Ungheria e Repubblica ceca. Dal 2023 interromperà la produzione di iniettori nello stabilimento di Pisa: in 750 rischiano il posto. Alla VM di Cento, in provincia di Ferrara, oggi Stellantis, in 900 producono il diesel V6: dal 2023 questo motore non ci sarà più, ma non si sa se e come sarà sostituito. A Pratola Serra (Avellino), sempre Stellantis, si producono il diesel 1.600 e quello per i veicoli commerciali Ducato: i 1700 dipendenti hanno aggiunto alla produzione dei motori quella delle mascherine, ma sono comunque in cassa due settimane al mese. Alla Bosch di Bari, dove è stato inventato il diesel common rail, ci sono 1.400 posti a rischio. Altri 600 posti in bilico alla Marelli, oggi del fondo Kkr, dove si produce componentistica per il motore endotermico. Infine la multinazionale giapponese Denso ha grandi progetti sull’elettrico con Mazda e Toyota. Ma non sullo stabilimento di San Salvo, in provincia di Chieti, dove si continuano a produrre alternatori e motorini di avviamento. I dipendenti sono 1.000: in 200 andranno a casa entro l’anno, per gli altri 800 posti non ci sono certezze”.
E, sottolinea la Gabanelli, “un piano per riconvertire questi stabilimenti al momento non c’è”. Paesi e case automobilistiche si dividono sulla velocità e le modalità con cui affrontare la cosiddetta transizione ecologica. Italia, Germania e Francia fanno pressioni per avere tempi più lunghi. Intanto però il resto del mondo si muove: la Volvo passerà totalmente all’elettrico entro il 2030, entro il 2040 Ford, General Motors, Daimler Mercedes-Benza, Jaguar, Land Rover e la cinese Byd.
“Pechino – dice la Gabanelli – ha cominciato dieci anni fa a sovvenzionare l’industria dell’auto elettrica con 100 miliardi di dollari: sono nati 300 produttori specializzati. Biden ha firmato un ordine esecutivo: entro il 2030 il 50% delle nuove auto deve essere elettrico o ibrido e il Congresso sta varando incentivi fiscali per i cittadini che comprano auto elettriche prodotte negli Stati Uniti. In Italia il tavolo di governo sulle politiche industriali con i protagonisti dell’automotive ha prodotto un solo incontro, a luglio, poi si sono salutati. Chi va avanti si arrangia da solo”.
“La Motor Valley emiliana, sulla spinta dei grandi marchi (Lamborghini e Ferrari) sta facendo sistema per attirare investimenti e cambiare pelle. La sino-americana Silk-Faw fra qualche mese comincerà a costruire lì la sua fabbrica di supercar elettriche e sono partite le prime assunzioni. Vicino a Modena un gruppo di imprenditori ha fondato Reinova: fa collaudo di batterie. Mani libere invece all’ex Fiat, Stellantis: a inizio 2020 per mantenere l’occupazione sul territorio e investire gli abbiamo dato un prestito di 6 miliardi garantiti dallo Stato; qualche mese fa li ha restituiti insieme ai vincoli e – conclude la giornalista d’inchiesta – arrivederci”.