In un contesto sempre più alienato dalla realtà come la Miami Art Week, tuttora in corso in quella Florida ormai considerata come il più sicuro dei porti per i miliardari d'oltreoceano, Jaguar ha orchestrato quello che potremmo definire come il più raffinato esempio di metamorfosi identitaria del lusso contemporaneo. Ian Callum, Director of Design di Jaguar, nelle vesti di sommo sacerdote di una nuova liturgia automobilistica, ha infatti presentato la nuova Jaguar Type 00 con la solennità di chi sta svelando non una semplice concept car, ma una rivelazione divina. L'atmosfera, studiatamente rarefatta, sembrava suggerire che non si stesse semplicemente mostrando il prototipo di un'auto che per altro non vedrà mai la luce in quella forma, ma celebrando un rito di passaggio in cui l'heritage britannico si inchina devotamente all'altare della contemporaneità più trendy
Il rebranding che non ci meritavamo
Come in ogni opera teatrale che si rispetti, questo secondo atto segue un prologo altrettanto memorabile: il rebranding del marchio, annunciato con un video talmente "illuminato" da attirare persino l'attenzione di Elon Musk. Il filmato, un capolavoro di quella che potremmo definire "appropriazione culturale 2.0", ha scatenato una tempesta social degna delle migliori soap opera, con il pubblico diviso tra chi gridava al sacrilegio e chi applaudiva questo improbabile matrimonio tra l'aristocrazia automobilistica e la sensibilità woke.
La questione assume contorni ancora più delicati quando si osserva come il linguaggio visivo e narrativo scelto da Jaguar attinga copiosamente dall'estetica queer, trasformando codici culturali carichi di significato politico e sociale in meri strumenti di marketing. Un'operazione che ha scatenato la reazione più aspra proprio da parte di quella comunità che in quei codici riconosce non solo un'identità, ma una storia di lotte e rivendicazioni. L'ironia della sorte vuole che siano proprio i rappresentanti della cultura queer, maestri nell'arte della decostruzione dei significati, a smascherare questa operazione di appropriazione culturale mascherata da celebrazione dell'inclusività. Per accorgersene basta leggere i commenti ai video pubblicati dalla Casa inglese e dai media che si sono occupati della presentazione.
Far arrabbiare tutti? Fatto
Un'operazione che, insomma, sembra assumere a sorpresa sempre più i contorni di un favoloso paradosso postmoderno: il target "inclusivo" si scopre maestro nell'arte dell'esclusione, mentre Jaguar, nel suo tentativo di essere più woke della generazione woke, si ritrova respinta tanto dai puristi del marchio quanto dai suoi aspiranti nuovi apostoli. Una parabola che potrebbe figurare nei manuali di marketing come esempio perfetto di come trasformare un esercizio di riposizionamento in un harakiri commerciale di raffinata fattura. In questo teatro dell'assurdo, l'unica certezza sembra essere che nel tentativo di cavalcare l'onda del progresso sociale attraverso l'appropriazione di simboli e linguaggi della cultura queer, Jaguar sia riuscita nell'impresa di far arrabbiare praticamente tutti - un'achievement che, bisogna ammetterlo, ha del virtuosistico. La comunità LGBTQ+, in particolare, ha colto con lucida precisione l'ironia di un brand che pretende di abbracciare la diversità mentre ne mercifica i simboli, trasformando decenni di attivismo in un esercizio di stile automobilistico.