Filippo Colnaghi viene da una famiglia di appassionati. Il nonno guidava una BMW 507 Coupé - una tra pochissime - ed il padre, tra le altre, una Ferrari F40. Lui, le macchine, ha imparato ad amarle quando gli è stato detto di no. Che le auto d’epoca sono capricciose, difficili, antipatiche. Che vanno accudite e coccolate e non correranno mai come vetture moderne. Così si presenta alla sua prima 1000 Miglia con un amico e la 507 che era stata del nonno. Indossando una camicia fatta da Traiano Milano, l’azienda che guida ogni giorno, e chiamandola Ayrton. Un po’ come Senna, ma con in mente suo padre, riprendendo forme e colori che piacevano a lui. Padre, figlio e spirito. A correre la stessa gara che una volta portava via le vite e che adesso regala sorrisi. Noi di MOW racconteremo con lui la 1000 Miglia sui nostri profili social, assieme ad AutoMoto.it. Ci siamo fatti raccontare la sua storia, dalla passione per le auto a quella per lo stile.
Ciao Filippo, da dove nasce la tua passione per le auto?
“Mio nonno e mio padre hanno sempre avuto cura e amore per questi mezzi vecchi. Io sono nato in una famiglia in cui le macchine d’epoca erano presenti. Mio padre ha conservato la vecchia Mercedes 280 SE di mio nonno, aveva preso una MG degli anni Trenta… Vicino a Roma abbiamo una tenuta con diverse strade sterrate, ci giravamo con una Jeep Willys della seconda guerra mondiale. Avrò avuto sei, sette anni. Aveva tutte le caratteristiche di un’auto d’epoca, dal cambio non sincronizzato al volante senza servosterzo. Quello è stato un po’ il primo approccio, avrei voluto altre macchine del genere. E mio padre mi diceva di no, che non puoi prendere in mano auto d’epoca se non hai la passione, la voglia, se non capisci come funziona un motore. Perché altrimenti rischi solo di romperle e non andranno mai come un’auto nuova. Se non hai passione sono sempre dal meccanico. E quello mi convinse”.
Ho una Mustang Mach I del 1969. Che non la prendi perché si guida bene, per come tiene la strada o per quanto è rifinita
“Ho smontato la mia prima Vespa in garage a 13 anni, cominciando a capire un po’ i motori. È stata un po’ la passione del fai da te, quasi meditazione. Da bambino poi mi toccava portare tutto dal meccanico perché magari sbagliavo a rimontare, adesso sono già più capace. L’ultima moto che ho fatto è stata la BMW R/90 di mio padre. Mi piace il motore nudo e crudo, più che la macchina moderna. E il fatto che l’auto d’epoca sia scomoda mi fa godere, è un plus. Apprezzi ancora di più quello che stai facendo. Ho dei Land Cruiser dell’87 - che per quanto non siano vecchissime - mi hanno portato diverse volte nel deserto. L’unica cosa su cui non torno indietro è la musica. Ci deve essere sempre. Alla 1000 Miglia porterò la mia musica, ho una playlist che si chiama Mustang e penso che nonostante il nome sarà perfetta”.
“Vogliamo un po’ sorprendere chi ci vede per la prima volta, entrare nei primi 50. La 1000 Miglia è un evento maestoso, ma la corsa storica dal ’27 al ’57 era una cosa pazzesca. Mio nonno la fece nel 1948 con una Fiat 1100 modificata arrivando decimo. L’ha fatta in 17 ore e non era facile. Ci sono stati tanti morti, era rischiosa”.
Andate lì con una straordinaria BMW 507 Roadster. Perché?
“Era la macchina di mio nonno. Lui l’ha comprata nel ’57 ed è sempre rimasta in famiglia. Unico proprietario, passata da mio nonno a mio padre e da lui a me. Averla è una grande fortuna. La 507 nasce da un progetto di un dealer newyorkese Mercedes e BMW, che nel dopoguerra voleva vendere un po’ di queste auto. Chiese delle auto sportive, fresche, giovanili. Che piacciano. BMW esce con la 507 Roadster, e la Mercedes presenta la famosa 300 SL ad ala di gabbiano. Ma se la Mercedes era rimasta nel budget richiesti - per prezzi, potenze e quant’altro - BMW aveva esagerato. Costava qualcosa come il doppio rispetto a quanto era stato concordato. E la BMW ne fa soltanto 250, di cui - pare - solo 11 con l’hardtop, come la mia. Veniva fatto a mano, ma era anch’esso costosissimo e decisero di farle quasi soltanto cabrio. Il designer della macchina, Albrecht von Goertz, l’ha vista al Concorso di Eleganza di Villa d’Este nel 2001 ed è rimasto davvero colpito. Era esattamente come se l’era immaginata”.
Che sensazione ti dà guidare la stessa macchina che guidava tuo nonno prima e tuo padre poi?
“È una cosa fantastica. Ti siedi, guidi, ti immagini che le tue mani siano le loro. Torni a cinquant’anni fa, quando le strade erano diverse… Provi a pensare a quello che avevano in testa loro in quel momento, ed è un gran privilegio poter portare avanti una passione di famiglia e poterla conservare. Quando guido quella macchina e la sento girare come un violino, sorrido pensando che loro magari da lassù sorridono”.
Hai chiamato la tua capsule collection Ayrton. Anni Novanta, un po’ larga. Chi era per te Senna?
“A me è sempre piaciuto come personaggio. Io sono nato nel 1990 ed ho solo un vago ricordo della tragedia del 1994, mio padre guardava la Formula 1 con i suoi amici, ma a quattro anni non sai cosa sta succedendo. Mia madre mi aveva portato fuori dalla stanza però, come se avessi potuto capire. Io credo che negli anni la Formula 1 sia diventato un po’ più noiosa. Poi però, quando è uscito il documentario su Senna, l’ho visto e mi sono innamorato di questo personaggio. Più che per il pilota, mi ha sempre colpito come uomo. Che viene da una famiglia ricchissima ma nonostante questo ha valori molto umani, era estremamente spirituale. Ed ho anche scritto una tesi su di lui, su questa cosa. Quello che lo legava a Dio andava oltre. Ed era bello sentire un pilota così talentuoso, agonista e assetato di vittoria avere un rapporto così forte con la spiritualità. Avrò visto quel film diverse volte, e l’ultima - a marzo - l’ho visto con questo camicione largo e bellissimo. Ayrton era un figo, sempre. E ho fatto uno screenshot di lui con questa camicia e ho sviluppato il modello di questa camicia, la Ayrton, sulla base di una che piaceva molto a mio padre, forse la sua preferita. Tasconi grandi, manica larga…”.
Prossimo sogno?
“Una Panda 4x4. L’idea sarebbe rifarne una, farne un custom e poi portarla al Mongol Rally. È il sogno che voglio realizzare nei prossimi anni. Quando viaggi in macchina vedi il tempo che passa, i paesaggi che cambiano. Incontri tante persone che non avresti mai trovato ed è un viaggio che ti cambia. Ecco, una Panda nel deserto della Mongolia sarebbe un bel sogno”.
Come vivi le corse adesso? Troppa tecnica e poco cuore?
“Guardo più volentieri la MotoGP, che è più immediata e c’è meno strategia. Perché l’uomo corre? Per l’adrenalina, l’emozione. I piloti rischiano la vita per stare davanti a tutti, perché per loro quella è vita. Ed è una cosa bellissima, quasi sacra. Il rischio ed il pericolo sono sempre stati parte di questo spettacolo. E sono felice che ci sia grande attenzione alla sicurezza, ma credo che nella Formula 1 di oggi manchi un po’ di crudezza”.
Come nasce Traiano Milano?
“Era una mia necessità. Studiavo in America, e in quattro anni a Washington continuavo ad andare avanti e indietro tra lì e Milano, passando per Londra. 16 ore di viaggio. Io sono preciso, maniacale, e volevo vestirmi comodo senza sembrare in pigiama. Così mi sono creato un kit di viaggio che ho usato per quattro anni. E tornando in Italia ho pensato che fosse ora di trovare qualcosa di nuovo, ed è lì che ho scoperto che non c’era. Nessun sito vendeva il concetto di vestiti comodi, con un tessuto morbido, ma comunque formali. E così ho pensato di farlo io, comfort più estetica”.
Va detto che indossando una camicia Traiano sembra quasi di essere in pigiama, almeno finché non ti guardi allo specchi e ti ricordi di essere perfettamente vestito.
“Potrebbe essere una t-shirt, potresti essere a petto nudo e non cambierebbe niente a livello di percezione. Ed è il motivo per cui siamo rimasti in piedi. I clienti tornavano a chiederne altre. Ne prendono una per curiosità e tornano dopo una settimana per comprarne cinque. E doveva essere qualcosa di cui nessuno si accorge, altrimenti avrei fatto anche io felpe”.
Qual è stata la parte più difficile?
“Convincere. Dovevamo spiegare alle persone abituate ad un certo tipo di vestiario che c’era un altro modo di fare i vestiti. Fortunatamente in poco tempo anche i grossi brand hanno cominciato a copiarci. Ed è buono, perché è un bel riconoscimento e ti aiutano ad aprire il mercato, ma resta difficile confrontarsi con loro”.
Il viaggio è qualcosa di determinante in tutto il concetto che c’è dietro al marchio.
“Sicuramente è un passaggio fondamentale per chi nella vita non si accontenta di mantenere lo status quo. Lo è quando esci dalla tua comfort zone, non parlo delle ferie sempre nello stesso posto. Quella è una vacanza. Quello che ti porta a doverti arrangiare fa sempre bene, in qualsiasi circostanza. Quando sei nella tua quotidianità fai fatica ad essere stimolato”.
È vero. E l’auto, spesso, cambia il modo di viaggiare. Prima parlavi di una playlist ‘Mustang’ per la 1000 Miglia. Perché?
“Esatto. Io ho una Mustang Mach I del 1969. Che non la prendi perché si guida bene, per come tiene la strada o per quanto è rifinita. Ti devi dimenticare tutto e prenderla soltanto come muscoli grezzi, quasi da pirata della strada. Dopo la laurea sono andato a lavorare per una fabbrica in Trentino, che però aveva una filiale americana. E in North Carolina, nell'estate del 2014, ho trovato questa questa Mustang. L’ho guidata dall’East Coast alla West Coast passando per il Colorado, un roadtrip di due settimane e mezzo. Arrivato alla fine non mi sembrava il caso di venderla, facevo nove ore di fila con la strada dritta e niente intorno. Anche perché è una macchina con una coppia altissima ma senza allungo. Ottima per lo zero a cento, ma dai centodieci non è che faccia chissà che strada. È lentissima!”.
“Alla fine l’ho caricata su di un container e l’ho spedita in Italia. Anche perché da noi ce ne sono veramente poche, e quelle poche che ci sono erano vendute a cifre altissime. Era un buon investimento, mi sono detto che avrei sempre potuto venderla, ma non lo farò mai. Spero solo che un giorno avrò anche io un nipote a cui darla”