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Alice Cooper dimostra che il rock è vivo (e pure Dante)

  • di Cosimo Damiano Damato Cosimo Damiano Damato

2 luglio 2022

 Alice Cooper dimostra che il rock è vivo (e pure Dante)
Siamo stati all'Alcatraz per lo show di Alice Cooper. E 74 anni la leggenda vivente dimostra come il rock sia ancora vivo, e in grado di impugnare metaforiche spade contro il perbenismo. E nel suo spettacolo accompagna pure gli spettatori nel porto della poesia. E così conquista Milano...

di Cosimo Damiano Damato Cosimo Damiano Damato

La Divina Commedia di Alice Cooper. L’Alcatraz di Milano come in un film di Tim Burton sprofonda e risorge nel meraviglioso inferno di Dante. Chissà, forse Alice Cooper è la reincarnazione di una delle ultime vite del poeta italiano. La fisiognomica è la stessa ed anche la poetica. Alice Cooper al di là delle scenografie ossianiche e decadenti è un sofisticato cantautore, guarda negli occhi il pubblico, ne sente il respiro, ne comprende anche le inquietudini e con il gioco dark delle decapitazioni, bambole urlanti e mostri giganti affronta gli incubi dell’uomo riscattando quella folata di pazzia che rende liberi da ogni dolore. A settantaquattro anni Alice Cooper dimostra come il rock è vivo, la sua voce è degna di Carmelo Bene e poi le chitarre, fra cui quella di Nita Strauss. Sì, una donna che spezza le corde e suona fino a sanguinare le dita, una rivoluzione potente come eucarestia sacra sfidando ogni fisica. Alice Cooper impugna spade, fruste ma i suoi colpi sono metafore contro il perbenismo americano. Lo show è un’esplosione di energia, vitalità che sopravvive ad ogni decadenza e modernità. Alice è al timone di una nave fantasma, attraversa epoche, storie, volti e riporta il suo vascello vagabondo nel porto della poesia. Quella più pura. La camicia di forza, gli sputi di sangue, il frac, i guanti in pelle rivelano un sillabario di neuroscienze. 

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Sfilano canzoni come Go to hell, I’mEighteen, Poison, Billordollarbabies, Dead babies, I love the dead e poi arriva School’sout in una versione tribale che sconfina in Anotherbrick in the wall.  Alice si inchina al pubblico di Milano, l’esercito resistente del Rock and roll. C’è anche una strana nostalgia che ci afferra le fibre del cuore con le unghie, quando ascoltavo Poison avevo sedici anni, il disco Trash è stata per la mia generazione una vera educazione sentimentale: dall’erotica di Bed of nailscon un verso che ci faceva sopravvivere a tutti quei letti pieni di chiodi che avremmo abitato – “le mie lacrime sono il tuo vino”.  Alice ha salvato intere generazioni con Poison, il suo coraggio di raccontare la seduzione della droga e di affrontarla e vincerla. A salvarci è stato il rock e se oggi possiamo vivere un concerto in compagnia dei nostri figli e abbattere quel muro generazionale è proprio grazie al padre, al figlio e allo spirito santo di Alice Cooper. A fine show mi fermo al merchandising, sto per comprare una tshirt con gli occhi di Alice, c’è anche il manifesto con la sua firma, ma scelgo di farlo vivere per sempre e raggiungo l’uscita senza souvenir portando con me solo le fotografie scattate con gli occhi e la voce che continua a cantarmi nella mente:  “Si formano le rughe sul mio viso e le mie mani/ Si formano le rughe dagli alti e bassi/ Sono nel mezzo senza alcun piano/ Sono un ragazzo e sono un uomo”. L’immortalità e la saggezza dell’incoscienza giovanile che ci fa vivere ancora e per sempre.

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