Non so se fanno più impressione gli 80 anni di Paul McCartney compiuti il 18 giugno oppure gli imminenti 40 anni dal concerto dei Rolling Stones al comunale di Torino (e io c’ero) l’11 luglio 1982. Certo, ciò che colpisce innanzitutto è che questi vecchietti siano ancora sul palco quasi tutti, purtroppo lo scorso agosto se ne è andato Charlie Watts e in molti scommisero che sarebbe stata davvero la fine di una lunga storia e invece no, Jagger, Richards, Wood si esibiscono il 21 giugno a San Siro con un nuovo batterista, Steve Jordan, classe 1954, praticamente un ragazzino.
Che poi la storia si spiega meglio attraverso date e numeri. Sono passati 42 dall’assassinio di John Lennon, un uomo giovane ucciso ad appena 40 anni eppure sembrava allora molto più vecchio perché in semiattività da un decennio e ricordiamo che i Beatles quando si sciolsero nel 1970 quasi nessuno di loro aveva raggiunto i trent’anni eppure sembravano appartenenti a un’altra era. Io che ne ho 61, quando cominciai ad ascoltare musica che allora significava tante cose, come spiega bene lo scrittore inglese Hanif Kureishi “la musica - non il cinema, la televisione o i romanzi - era la forma culturale più significativa e stava cambiando tutto e per tutti”, rifiutavo tutto ciò che proveniva dal passato seppur prossimo. Ci dicevano che non avremmo dovuto fidarci mai e poi mai di chiunque avesse più di 30 anni, questo almeno per la generazione affacciatasi al mondo verso la metà dei ’70, quando il punk fece piazza pulita del noiosissimo rock sinfonico, del glam, del progressive, dei virtuosi e degli accademici.
Poi negli anni ’80 qualcosa è cambiato, si diffuse il postmoderno e un nuovo sguardo nei confronti della storia, eppure io lo ricordo perfettamente l’impressione che mi fecero i Rolling Stones in forma strabiliante sul palco dello stadio, che come ora cominciavano il concerto con “Start me up” e chiudevano immancabilmente con “Satisfaction”. Non erano neppure quarantenni eppure mi sembravano già vecchi rispetto a me che ne avevo venti in meno e ai gruppi che seguivo allora e che avevano la mia età, Cure e Depeche Mode in particolare.
Solo una volta superati i trent’anni mi sono trovato ad amare una rockstar più giovane di me, Kurt Cobain che ha deciso di non invecchiare. I miei eroi, i punti di riferimento della mia giovinezza, sono tutti dei vecchietti. Il Boss Bruce Springsteen ha 72 anni, Neil Young 76, con un po’ di generosità voglio aggiungere il Bono Vox di un tempo appena 62 e Sting 70. E non mi addentro nei meandri di quei musicisti di culto che ognuno ha i suoi, né vado a scomodare chi non c’è più.
Eppure sono convinto che martedì al Meazza ci sarà tra il pubblico sempre numeroso qualcuno che i Rolling Stones non li ha mai visti e non solo teste bianche e calve, rughe e rimpianti. Vedremo anche parecchi giovani, magari “costretti” da genitori e nonni che giustamente gli avranno spiegato “guarda non hai diritto di parola se almeno una volta non li sentirai dal vivo” e questo ai miei tempi non sarebbe mai capitato perché allora noi avevamo la nostra musica e non la dividevamo con i più grandi.
Il rock allora sarà un paese per vecchi ma dopo non è mai più successa una rivoluzione di costume, sociale, culturale e soprattutto di linguaggio neanche lontanamente paragonabile, e questo succede anche per l’arte e la cultura in generale. I ben informati spiegano che si però il rap è un qualcosa in cui i più giovani si identificano, ma è una menata, non se ne salvano neppure le dita di una mano, per me il solo Kendrick Lamar, anzi il rap è espressione di una società malsana, chiusa in sé stessa, senza inseguire un’utopia, un sogno.
Noi eravamo rock e rock siamo rimasti. Per questo ci sorprendiamo ogni tanto a muoverci con Greta Van Fleet e Maneskin, che non saranno originali ma in questi tempi ci accontentiamo anche di buone imitazioni. Noi eravamo rock, ragazzi miei, più tosti di voi, più cazzuti di voi, migliori di voi.