Connessioni. Sono in auto che percorro le strade tortuose della mia città natale. Volessi bluffare potrei aggiungere il tocco naif della colonna sonora, ma non credo porti fortuna dire bugie, anche se dette a fin di bene, dove per fin di bene si intende, ovviamente, per rendere una narrazione più tonda. Mi arriva un messaggio su Whatsapp. È il direttore, che mi gira un post su Instagram. Fraintendo. Sto guidando, neanche l’ho aperto. Penso sia il link del pezzo che gli ho mandato nel pomeriggio, dove io, che elegante non sono mai stato, parlo di chi ha fatto dell’eleganza il proprio mestiere, ovviamente andando poi a divagare. A quel link seguono due righe, spartane. Ti va di farmi un pezzo su Charlie Watts?, chiede. Certo che mi va, rispondo, domattina mi ci metto. Invece è notte, l’una passata, e sto scrivendo.
E sto scrivendo perché finita la fila tortuosa di curve, quelle che mi hanno portato in un agriturismo a due passi da quello che è stato il carcere che ha ospitato per anni Ali Agca, si dice anche Totò Riina, quel link l’ho aperto, e vedendo una immagine particolarmente da dandy di Charlie Watts, il batterista dei Rolling Stones, sempre che serva questa didascalia, Dio voglia di no, ho scoperto nell’ordine, che il pezzo che avevo mandato nel pomeriggio non era ancora stato pubblicato e che Charlie Watts, che che ne dicano coloro che parlano dei morti usando il presente, perché solo chi non è ricordato muore veramente, era da poco morto, diventando a tutti gli effetti l’ex batterista dei Rolling Stones. Frase, quest’ultima, a sua volta discutibile, perché qualcuno, sono tra questi, può pensare che anche da morto resterà per sempre lui il batterista dei Rolling Stones, entrano nella band a appena vent’anni, esattamente sessant’anni fa, quando al fianco di Mick Jagger e Keith Richards, Dio quanti mai ne dovranno ancora seppellire questi due, c’era ancora Brian Jones, col suo caschetto biondo, le sue chitarre e quel refolo di vita che gli rimaneva davanti. Di fatto Charlie Watts è morto, a Londra, la città dove è nato, dove è entrato nella band, non a caso considerata una delle più importanti della storia tutta del rock, forse proprio la più importante, lui che era cresciuto a stenti e jazz, figlio della working class, e mi auguro abbiate almeno apprezzato che, spaesato come sono, io non sia ricorso a quegli stupidi e assai poco efficaci giri di parole atti a mascherare proprio lo spaesamento, il dolore, quei “è passato a miglior vita”, “ci ha lasciato”, “è passato oltre”, “è mancato”.
No, Charlie Watts, il dandy della band che nell’immaginario collettivo è parte di una dicotomia che vede dall’altra parte i Beatles, è morto a ottant’anni, per dirla con lui andando per una volta fuori tempo, frase in realtà usata per annunciare la sua assenza da un tour di qui da venire, ma sicuramente applicabile con ancora maggiore coerenza a questo luttuoso accadimento. Perché la morte di Charlie Watts, a questo punto un minimo di epica e di retorica è non solo consentita, ma quasi necessaria, è di quelle che lasciano davvero senza parole, un gigante del rock che in qualche modo è destinato a restare nella memoria, anche senza bisogno che il rock venga rinverdito dai Maneskin. Un personaggio che in qualche modo si è sempre ritagliato uno spazio tutto suo all’interno della band, non solo per una mera faccenda di look, provate a accostarlo alla sinuosità atletica di Mick o alla faccia tutta rughe e il look da pirata dei Caraibi di Keith, se ce la fate, ma anche per un atteggiamento assai schivo, distante anni luce da quella atmosfera godereccia cui il resto del gruppo è stato a lungo, giustamente, associata. Niente groupie, per lui, è noto, sposato sin dalla metà degli anni Sessanta con la sua Shirley, verrebbe da dire, tanto per lasciare intendere di saperla lunga, che se mai avesse voluto sbocconcellare un Mars lo avrebbe fatto come tutti noi da piccoli, scartandolo e mangiandolo tenendolo in mano, con tanti saluti a Marianne Faithfull, e niente droghe, tranne una brutta parentesi comunque solitaria, lontana da quei travolgenti anni Sessanta.
Volendo, ma questo sarebbe travisare tutto quello che i Rolling Stones sono stati e ancora oggi sono per la storia della musica del secondo Novecento, anche poco rock’n’roll, più portato a ritmi shuffle, giocando di spazzole, che a ritmi secchi in quattro quarti, non fosse che il suono della sua batteria, così intrinsecamente black, è stata la quintessenza dello spirito della band, inconcepibile pensarla con altri ritmi. Questo, confesso, avevo pensato, leggendo la notizia del suo ritiro dall’imminente tour, sostituito dal sodale e bravissimo Steve Jordan, gigantesco, certo, ma non Charlie Watts. Ennesima differenza in quella dicotomia che da sempre vuole i Rolling Stones, band derivativa dal Blues, Muddy Waters non è stato tirato mica in ballo invano, dove da una parte Mick e Keith dovevano contendersi proprio con lui lo scettro, seppur i primi due hanno sempre vestito i panni dei leader, mentre nei Fab Four era proprio Ringo Starr quello indicabile come anello debole, sempre che si possa in alcun modo tacciare di debolezza qualcosa che ruoti intorno a queste leggende, George Harrison e Ron Wood destinati a vestire i panni dei gregari, Bill Wyman da troppo tempo su altri lidi.
Charlie Watts è morto, in un anno in cui sembrano voler morire davvero tutti, del resto ormai da anni i nostri miti se ne stanno andando a frotte, complice l’anagrafe e in molti casi uno stile di vita non esattamente salutista. Nel suo caso, ribadisco, il vizio era stato sporadico, l’eroina per qualche tempo, negli anni Ottanta, poi più nulla. È morto e sulle prime, capito a due passi da Conero che era un coccodrillo quello che avrei dovuto scrivere, ho pensato a quelle tavole ormai diventate quasi fastidiose di Zerocalcare, Quando muore uno famoso. Ho pensato che sarei arrivato tardi, perché in tanti avrebbero già scritto un proprio ricordo. Ho pensato che avrei rischiato a ogni curva, anche quando si scrive si percorrono strade tortuose, a volte, di cadere nell’ovvio, lasciandomi magari andare a una malinconia incomprensibile per chi il rock non lo ama, o semplicemente avrei scritto qualcosa incapace di rendere su carta, digitale, la grandezza di un personaggio di tale levatura. Solo che Charlie Watts non è semplicemente uno famoso. È stato, portandosi via definitivamente il numero dieci della sua maglia, un campione assoluto, per sessant’anni il batterista dei Rolling Stones. In questi casi si tende a non dire nulla riguardo quel che il mondo sarà da oggi, per evitare di offendere chi fatica, appunto, a capire un lutto dovuto a qualcuno che in fondo non si è mai conosciuto di persona, sempre che non si conoscano di persona coloro che suonano e cantano nei dischi che ci hanno accompagnato negli anni belli della vita, e anche in quelli brutti, ma è evidente che da oggi davvero sulla Terra ci sarà un po’ meno groove. La terra ti sia lieve, almeno quanto il modo che avevi di appoggiare le spazzole sul rullante.