“Cattivo sangue” (Vallardi) di Elena Di Cioccio è un cattivo libro. Nel senso che è un libro che si ribella a una forza che, in Italia e nel resto dell’Occidente, è forte almeno quanto il patriarcato: il buonismo che tutto stritola e frulla in una poltiglia insapore di conformismo. Nel raccontarci la propria vita, infatti, Di Cioccio ha scritto il memoir di una vita vissuta e divorata con le mani, fatta di discese nel vuoto e risalite conquistate a suon di eccessi, testardaggine e capacità di surfare sulle onde del destino, al largo delle coste su cui da anni batte il sole asfissiante del politicamente corretto. Immaginiamo l’incredulità, lo spaesamento degli editor di casa nostra, gente abituata a fabbricare vittime in serie come Willy Wonka con i lecca-lecca, nel leggere “Cattivo sangue”. L’infanzia con un padre batterista conosciuto in tutto il mondo (“uno sciamannato con i capelli lunghi che faceva un lavoro-non lavoro, e suonava quella musica lì, senza nemmeno le parole”), il rapporto complesso con la madre morta suicida (una “leonessa-bambina ferita”) e, ovviamente, la diagnosi di sieropositività a soli 28 anni. Devono aver strabuzzato gli occhi: in un’epoca di narcisisti travestiti da vittime, ecco una donna presa a pallonate dalla vita che tuttavia scrive un libro privo di retorica o autocommiserazione, e che – soprattutto – si rifiuta di lasciare alla malattia il compito di definire i confini della propria identità.
Non troverete, in “Cattivo sangue”, febbriciattole di autocompiacimento, autodiagnosi filosofeggianti o paranoie da laureande in psicologia: Elena scrive senza filtri, senza pudori, senza rancori, antidoto vivente all’autofiction contemporanea che elegge il paradigma della vittima a chiave estetica, che eleva la lagna a genere narrativo unico. Un racconto, tra l’altro, scritto in punta di ironia, al contrario dei tanti cahiers de doléances che impestano le nostre librerie, dove si fa a gara a chi si prende più sul serio. Si pensi, per esempio, a Sua Suscettibilità Jonathan Bazzi, uno che piuttosto che passare una giornata senza indignarsi potrebbe prendersela con lo stendino dei panni, il tagliaunghie o lo scopettone del cesso (pardon, del water, parola molto più inclusiva) accusandoli di averlo offeso: ecco, alla faccia di questa narrativa biografica pseudo-naturalista costruita sull’assioma “vittima ergo sum”, “Cattivo Sangue” è il diritto e dovere di leggerezza tipico di chi la sofferenza l’ha conosciuta sul serio.
Un libro che ha, infine, il pregio di rifiutare la forma della favoletta morale. Quante volte abbiamo letto autobiografie il cui compito dichiarato era educare il popolo alla “resilienza”, parola orribile dei nostri tempi orribili? Quante volte abbiamo visto il magma caotico e incandescente dell’esistenza impiattato come fosse un antipasto di un ristorante stellato, al fine di “trasmettere un messaggio”, ficcandolo con forza giù nel gargarozzo del lettore-bue?
Anche qui, “Cattivo Sangue” delle convenzioni se ne frega: lo stile è frammentato, rapsodico, riuscendo nell’impresa di riprodurre il carattere casuale e indeterminato della vita e di favorire, in questo modo, il sorgere di una forte empatia con l’autrice, che non si presenta come donna “eletta” investita di una missione, ma come povera stronza uguale a noi altre.
Forse “Cattivo Sangue” non vincerà mai uno di quei premi capaci di farlo entrare nella ormai mitologica cartelletta di cuoio di Alain Elkann, e la sua autrice non sarà insignita del ruolo di venerabile maestra dai custodi nostrani del Bene e del Giusto. Ma nell’ambito dell’autofiction rappresenta, di gran lunga, il miglior libro italiano nello scaffale “Novità’” da molto tempo a questa parte. Non è poco.