“Abbiamo fatto seimila concerti in cinquant’anni di carriera e in tutti i seimila concerti abbiamo fatto Impressioni di settembre, ma non l’abbiamo mai fatta alla stessa maniera”. Sta per uscire un nuovo album dal vivo della PFM, The Event- Live in Lugano, che immortala una serata unica, unica per almeno un paio di buoni motivi, tenuta in Svizzera, e la storica band milanese ha incontrato un numero ristretto di giornalisti e critici musicali per parlarne, con calma, come usava, appunto, una volta. Uscire oggi con un album può sembrare qualcosa di anacronistico. Uscire con un album dal vivo, quindi, un anacronismo nell’anacronismo, ma come spesso capita, sempre che abbia alcun senso parlare di sensatezza in discografia oggi, due meno si annullano e The Event- Live in Lugano è un gran bel progetto da avere nella propria discoteca, sempre che siate tra quanti continuano a ascoltare la musica attraverso supporti fisici. Tornando alla frase che ha dato il via a queste mie parole, l’idea di fermare su disco, su Cd nello specifico, un evento unico, speciale, l’occasione luganese, capitata in assenza del chitarrista ufficiale della band, Marco Sfogli, sostituito letteralmente al volo da un giovanissimo talento assoluto come Matteo Mancuso, in ottima compagnia di un altrettanto validissimo e giovane Luca Zabbini, all’Hammond e alle voci, ecco, l’idea di fermare su traccia un evento unico, cui hanno sì assistito cinquemila persone, ma che comunque non è destinato a ripetersi sul fronte palco, è sicuramente un gesto interessante, perché prova a scardinare dei meccanismi che ormai sono diventati routinari e lo fa con la forza di chi può contare su un proprio zoccolo duro e anche, forse, con l’indifferenza quasi svagata di chi non ha da decenni più nulla da dimostrare, essendo già parte della storia del rock.
Siamo in epoca frammentaria, degli scrollamenti su Tik Tok, dell’attenzione sotto la soglia dei quindici secondi, quella che ha portato dall’accumulo seriale del decennio precedente, leggi alla voce iPod, al velocissimo dai e vai dello streaming, cosa di meglio che contrapporre a questa frenesia distratta, digitale nel senso anatomico del termine, legata a un dito, l’indice, lì a muoversi veloce sullo schermo dello smartphone, qualcosa che suoni come un documento storico, il fermo immagine di una serata unica, prima tappa di una collezione che, dicono Franz Di Cioccio e Patrick Djivas, porterà a altre tappe simili, come intenzioni, diversissime nel risultato, mai una canzone suonata alla stessa maniera, ricordiamocelo bene.
Tutto va veloce?
Bene, noi siamo fermi, a suonare la nostra musica e a suonarla per il piacere di suonarla e di farvela sentire, variando come solo chi suona dal vivo, senza sequenze, senza macchine, può fare. Una rivendicazione, certo, che però è forte di un talento indiscutibile, e che prova a guardare più lontano dell’immediato, forse, questo è evidentemente un rischio, perdendo un po’ di vista l’odierno. Perché se è vero che sì, come hanno ripetuto i due a una stampa comunque agè, credo di essere stato, coi miei cinquantatré anni, uno dei più giovani presenti, il mondo è pieno di musicisti validissimi anche nelle nuove leve, i due ospiti della serata fermata su disco lo attestano, e mai come in questo caso sono stato felice di non aver sentito nessuno evocare i Maneskin, è anche vero che gli stessi due hanno sottolineato come fare dischi dal vivo, senza neanche voler poi aggiustarli in studio, nel caso servisse qualche aggiustamento, è molto più semplice che fare un nuovo album di inediti in quello stesso studio, fatto che dimostra come, in fondo, è più facile che i giovani siano stimolati a dedicarsi a una musica che non necessiti di strumenti suonati, ma di quelle macchine lasciate fuori dai palchi della PFM, perché mai faticare a fare qualcosa di difficile se si può fare senza fatica qualcosa di facile, direbbe Max Catalano?
Il punto, sempre che un punto ci sia, è che la musica dal vivo, quella che la PFM porta in giro da decenni, vive un momento di auge, certo, ma in qualche modo parallela alla musica in streaming, come se ci fossero due sistemi compatibili ma che quasi mai si intersecano, le famose mele e pere dei problemi di quando si andava alle elementari. Come sarebbe altrimenti possibile mettere nella scaletta di un album, un album dal vivo, dei pezzi strumentali, uno addirittura che si intitola Tramsumanza Jam, figuriamoci, vere e proprie jam, appunto, improvvisate al momento, sul palco, e destinate a essere per loro natura degli unicum. Un privilegio, certo conquistato a fatica negli anni, che i giovani strumentisti di talento di cui sopra, è facile intuirlo, non solo non si possono permettere ora, ma non si potranno permettere mai. Ora, a parte il dettaglio bizzarro di fermare su disco un live nato dall’assenza di uno dei componenti, ma in fondo la PFM sono essenzialmente i due pilastri Franz Di Cioccio, la parte fisica, e Patrick Djivas, quella mentale, l’uno energico, l’altro riflessivo, sul palco come a tavola, qui all’Osteria 12 di Milano, resta anche un tentativo, proprio di Djivas di dare una lettura alta della contemporaneità, in parte contrapposta all’epoca nella quale la PFM è nata. Da una parte, oggi, una necessità fisica di parole, tante parole, dovuta probabilmente al troppo tempo passato in isolamento, davanti allo schermo dello smartphone, a parlare con parole spezzettate su Whatsappo o sui social, dall’altra, negli anni 70, la necessità di musica che aggregasse i giovani, le parole, tante, presenti nelle assemblee, nei comunicati, nei comizi. Come la musica, tanta, della PFM sia collocabile nell’oggi, a parte per chi già c’è e c’era, sfugge, ma forse i documenti storici servono non tanto all’oggi quanto a una prospettiva più lunga, complessa, e in questo The Event- Live in Lugano è un documento davvero prezioso, con una scaletta che spazia nel tempo, giocando, anche la rivendicazione di essere tutt’altro che prog, loro a spaziare da un genere all’altro senza troppe sovrastrutture, con tutte le sfumature della musica.
In chiusura, visto che si è parlato di fedeltà al momento, di non voler incidere nulla in studio di quel che è accaduto sul palco, veri fino in fondo, mi sento di dire che il finale di conferenza, nel quale è arrivata a parlare, con molto garbo e pudore, Cinzia Di Cioccio, la primogenita del batterista e cantante della band, chiaramente lì per dire la sua rispetto alle esternazioni di sua sorella minore Elena, contenute nel libro Cattivo sangue, nel quale la bionda soubrette parla senza filtri della morte per suicidio della loro madre, dei rapporti pessimi avuti in famiglia col padre, in qualche modo indicando in un rapporto tossico una deriva non esattamente serena della sua esistenza, ecco, trovo questa una nota fortemente stonata, perché da critico musicale non mi sembrava rilevante parlare di questa faccenda in questa sede, e perché ero riuscito a tenermi alla larga da quell’operazione non senza fatica, se ne è parlato parecchio, ovunque, e finirci in mezzo mentre sono a una conferenza per parlare di un album d’altri tempi con signori musicisti mi è sembrato fuoriluogo. Mettiamola così, non avrei voluto sapere i cazzi loro, e ora li so, mio malgrado. Ma forse è che anche io, come loro, interpreto il mio lavoro con uno spirito novecentesco, mica sarà un caso che l’unica volta che la band milanese è andata a suonare a Mtv, in qualche modo apripista di quella tendenza frammentaria che oggi abbiamo tutti, per pochi secondi, sotto gli occhi, Bret Easton Ellis in Meno di zero già lo aveva capito, ce li ho portati io, ospiti a Stasera niente Mtv di Ambra.