Gli story-editor americani dividono le storie di finzione in due gruppi: high-concept e low-concept. Le storie high-concept sono basate su premesse narrative forti, in grado di attirare subito l’attenzione e di essere riassunte in poche parole. Per esempio: uno squalo mangia viva una ragazza e terrorizza una comunità (Lo squalo); un professore di liceo ammalato di cancro inizia a produrre droga (Breaking Bad); il direttore del Louvre viene ucciso nel suo museo e il suo cadavere viene rinvenuto al centro di un simbolo esoterico (Il codice Da Vinci). Viceversa, le storie low-concept sono basate su premesse più ordinarie e articolate. Per esempio: qualunque commedia romantica in cui lui e lei si conoscono, si innamorano, si lasciano poi tornano insieme. Non c’è un gruppo migliore di un altro: ognuno presenta punti di forza e potenziali rischi. Il problema, semmai, è che in Italia, per motivazioni che non vale la pena approfondire qui, ad eccezione della narrativa per ragazzi, è sempre più difficile trovare scrittori con il coraggio e la fantasia necessari a creare storie high-concept capaci di far sognare. A narrazioni potenti, ambientate in universi narrativi pieni, si preferisce la piccola vicenda autobiografica ambientata nel piccolo paesino di periferia, basata sul piccolo trauma raccontato con dispiego di retorica e puzza sotto al naso. Ecco, il principale merito di Contrappasso di Andrea Delogu (Harper Collins, 2023) è di non avere nulla a che fare con quanto siamo abituati a leggere e a vedere in Italia. La storia, infatti, prende le mosse da una premessa high-concept addirittura spregiudicata: in un futuro prossimo, ogni essere umano che uccide un qualunque animale, anche un insetto, muore immediatamente e nello stesso modo in cui ha ucciso quell’animale (da cui il contrappasso del titolo). Per cui: una signora compra un pacco di pasta al supermercato, ma nella confezione c’è una falena che finisce inavvertitamente schiacciata. Squash! Il cervello della signora schizza in aria, sangue e materia cerebrale ovunque, chissà quanto tempo ci vorrà per pulire. Capite bene che non abbiamo a che fare con il libro che potreste trovare in finale al premio Strega. L’altro grande merito di Contrappasso e dell’autrice è il modo antiretorico con cui affronta le implicazioni della premessa: temevo che il tutto si risolvesse in una tirata buonista contro l’uomo cattivo che sfrutta la natura, che fossimo davanti, insomma, a uno di quei letali, italianissimi tentativi di dare vita alla “grande metafora dei nostri tempi”; e invece, l’autrice problematizza il tema attraverso l’espediente dei personaggi diversi ognuno portatore di una tesi ugualmente approfondita, senza parteggiare per un punto di vista piuttosto che un altro. E questo, in una realtà polarizzata, che utilizza la finzione come clava per sostenere un’idea politica, è un altro apprezzato segnale di discontinuità.
Intanto, l’ambientazione. I personaggi hanno nomi americani (Robert, Michael) e il giornale locale si chiama “Position”, però nelle prime 50 pagine si sono fatti due volte la pasta e uno si è pure vantato di quanto siano buoni i suoi spaghetti alle vongole. Va bene ambientare la storia in un posto di finzione, e va bene anche che questa località abbia usi e costumi “misti”: ma qui l’effetto è di un libro italiano che fa il verso a storie dello stesso genere ambientati negli States, col risultato di far perdere alla storia autorevolezza e gravitas. Ma il vero problema è a monte, o meglio, all’inizio. In ogni high-concept, soprattutto se di genere sci-fi, il punto critico sono le prime 50 pagine del libro, i primi 20 minuti del film. È il momento fondamentale: è qui che il pubblico deve immergersi pian piano nella storia, finendo per affogarci dentro. Pensiamo a Matrix: è solo dopo mezz’ora di film che Morpheus spiega il funzionamento del matrix, le macchine che hanno preso il controllo dell’umanità, eccetera. Prima, il nostro punto di vista ignaro ha coinciso con quello altrettanto ignaro di Neo, e come lui ha osservato le stranezze che gli sono capitate con crescente disorientamento anche noi abbiamo avvertito che, in quel mondo all’apparenza uguale al nostro, qualcosa fosse profondamente diverso. Insomma: seminando indizi, ma senza rivelare chiaramente nulla, gli sceneggiatori fanno salire una voglia maledetta di spiegazioni, e ce le forniscono solo quando sono sicuri di averci catturato per tutto il resto del film. Altro esempio: L’anomalia, libro di Hervé Le Tellier, caso editoriale vincitore del premio Goncourt 2020, basato su un high-concept diverso nella sostanza ma altrettanto ambizioso di quello di Contrappasso. Qui c’è un misterioso aereo che atterra a New York proveniente da Parigi, ma è solo a pagina 136 che il lettore ottiene un quadro completo degli eventi. Si tratta di quella che, in gergo, gli story-editor di cui sopra chiamano “exposition”, cioè l’atto di trasferire al pubblico, al momento giusto, le informazioni di background necessarie a comprendere e assaporare la storia. Perché se queste informazioni vengono rivelate troppo presto e tutte insieme, invece di creare interesse annoiano e il potenziale dell’idea finisce sprecato. Che è esattamente quello che succede in Contrappasso, dove la premessa e il suo potenziale vengono bruciati pronti via, in un interminabile dialogo di 75 pagine, attraverso l’espediente trito e ritrito dell’intervista.
La realtà del mondo di Contrappasso avrebbe dovuto essere svelata a poco a poco, magari partendo con la descrizione di queste morti misteriose, il panico tra i cittadini, le autorità che minimizzano, le false piste, la giornalista che scopre la verità ma non viene creduta… così invece si sacrifica l’aspetto davvero interessante e originale della storia, per concentrarsi esclusivamente sulla parte investigativa, che però risulta spesso priva di mordente e non particolarmente indovinata. La cattiva gestione dell’exposition è una costante di tutte le prime stesure. È molto difficile, per un autore, rendersene conto, ed è qui che, sulla carta, dovrebbero intervenire gli story-editor. Ma questa categoria, lo dico con cognizione di causa, in Italia è composta molto spesso da dilettanti privi di formazione specifica, concentrati esclusivamente sull’omogenizzazione della lingua e sul rendere il contenuto “accessibile a tutti”. Spiegare tutto, spiegare subito, pensando che il pubblico sia solo quello del sabato sera di Rai Uno: questo il loro modus operandi, che andava bene negli anni ’90 ma che certo non funziona oggi, nell’era delle storie complesse, per citare Robert McKee o Jason Mittel. Il fatto che a rimanere vittima di questo meccanismo sia un romanzo dal grande potenziale grida vendetta, e lascia in bocca il sapore dell’occasione mancata. Ci auguriamo che l’autrice ci riprovi, del resto l’inventiva non le manca così come la facilità di scrittura. Solo, speriamo venga consigliata meglio.