Solo una manciata di secondi confusi dove i suoni, un sottofondo incerto e volutamente cacofonico, vanno per conto proprio. Poi partono quaranta minuti di Baustelle distillati, dritti, sostanzialmente perfetti. Bello che Francesco Bianconi e compagnia abbiano scelto di avvolgere i dieci nuovi brani che arrivano dopo i due volumi di “L’amore e la violenza” (2017 e 2018) in un manifesto chiamato “Elvis”. Elvis come l’America in cui tutto iniziò, l’America del rock n’ roll e i generi che lo hanno innervato. “Elvis”, anche, come origine, reset. Ripartono dall’essenza, i Baustelle, e lo fanno sontuosamente, con una capacità di sintesi che solo una band composta da individui che si conoscono da una vita può raggiungere. Non è il loro album più ambizioso, né quello destinato a conquistare i cinici di professione. Però è quello più calibrato, ficcante, divertente.
In “Elvis” non si spreca una nota, ogni melodia si arrampica, gironzola e presto, spietata, colpisce. Ogni frase evoca qualcosa, la visione pop è robusta e ampia ma non si sottrae mai a quella sintesi, appunto, che la rende memorabile. E poi un album che fra i suoi pezzi sbandiera un titolo come “Gran Brianza lapdance asso di cuori stripping club” non può tradire. E non tradisce, infatti, perché “Gran Brianza lapdance asso di cuori stripping club” è una canzone all’altezza del titolo: decadente, un perverso divertissement per cuori marci che trovano rifugio solo a tarda notte.
svegliarsi tardi la mattina e criticare il grande vuoto, la sinistra che non c'è”. Solo che ci riescono, senza sforzi. Bianconi tesse inni per aree della nostra esperienza in cui, teoricamente, gli inni non potrebbero nemmeno sostare qualche minuto con le quattro frecce. Continuiamo a lasciarlo sognare e indagare, osserviamolo sognare e indagare. Lasciamolo sempre libero di scrivere un pezzo come “La nostra vita”, enorme nel suo prendersi le orecchie di tutti anche se il testo piacerà solo ad alcuni (“Chi ha vinto le elezioni, amore? Che vuoto ci governerà?”). Malinconie a pallettoni (“Fine dell'estate della nostra vita, sembrano rimaste solo sigarette spente e un colossale niente. Notti scorticate senza via d'uscita sono illuminate da una scritta al nеon gigante”) per un altro trionfo. Lo dichiarano pure, i Baustelle, in “Contro il mondo”: “Tutto sommato adesso è facile
fare una sintesi ben distaccata”. Non si riferiscono al loro modo di fare musica, al loro modo vertiginosamente generoso di concepire il medium pop, però “Elvis” trionfa non solo grazie alla ricchezza sonora, bensì in virtù di questa aurea sintesi. Che è ovunque, che permea ogni ritornello, ogni stoccata. Se “Andiamo ai rave” è tutta un sottile contrasto – il testo graffia, l’incedere musicale prima finge timidezza poi detona con grazia; quelle voci black che emergono dopo il ritornello, diamine! –, “Contro il mondo” è il primo scatto di una serie. “Elvis” suona subito come un “greatest hits” perché i Baustelle sono il trequartista che a centrocampo fa quel diavolo che vuole, quando vuole. Sì, hanno la spocchiosa pretesa farvi cantare con una melodia che parla anche di “
Baustelle meno barocchi uguale a Baustelle meno interessanti? Baustelle meno profondi senza le morriconiane suggestioni del cinema italico anni ’70? No, affatto. Ogni brano è un blitz, Rachele Bastreghi sostiene meravigliosamente il modo di cantare educato e flessuoso di Bianconi, sostiene meravigliosamente questi testi taglienti ma sempre un po’ aristocratici, ironici, come da dna baustelliano. “Milano è la metafora dell’amore” è un altro viaggio. Con piglio Britpop – alcuni passaggi dell’album evocano le fanfare di un ipotetico “Modern life is rubbish” suonato da una ciurma di over-45, e non dai Blur più giovani, o di un “Casanova” più estroverso – e fitta di quegli espliciti richiami geografici tipici dell’epoca in cui la Gran Bretagna incensava insistentemente sé stessa disvelando i suoi grandi e piccoli luoghi dell’anima, è l’ode che confonde e non t’aspetti. Ma davvero la Milano del 2023 può essere metafora dell’amore? Secondo me no, ma quando per quei tre minuti e trenta secondi canticchio convinto le strofe della canzone come contenessero somme verità, credo proprio abbiano ragione loro.
“Elvis”, altrove, è popolato da “Jackie” promiscue (non pensate quindi a quella di Brel). Si gioca con titoli da fare stramazzare di invidia i Mogwai (“Betabloccanti cimiteriali blues”), si frequenta uno splendido postaccio da imminente fine del mondo come “Gran Brianza lapdance asso di cuori stripping club” perché Bianconi la decadenza ce l’ha anche nel latte e cornflakes della colazione mattutina. Ha coverizzato i Divine Comedy di Neil Hannon, in coppia con Baby K ha riconcepito “Playa” iniettando tensione autoriale nel più balneare dei tormentoni. Cosa vi aspettavate? Che vi prendesse per mano per accompagnarvi nella “concettuale” perfezione di un fighissimo e moderno B&B? E no, lui vi accompagna – insieme a un’armonica cristallina ma tristanzuola – a conoscere da vicino una ragazza della notte che non dorme mai e bacia tanti Elvis bavosi. L’America di “Elvis”, in buona parte, è qui, in certi dettagli, negli arrangiamenti, non tanto nella grafica rappresentazione di un sogno quasi antico, ormai. Nella sfacciata volontà di fare/dire/cantare tutto ciò che si vuole, andandoci giù pesanti con le spezie sonore (tutti questi umori soul, queste suggestioni in odore di blues, portano in grembo qualcosa di corale; non a caso all’album hanno partecipato anche Alberto Bazzoli, piano e Hammond, Lorenzo Fornabaio, chitarra elettrica e acustica, Julie Ant, batteria e percussioni, e Milo Scaglioni, basso e chitarra).
Suona talmente “classico”, a tratti, “Elvis”, che anche il suo progredire verso la meta finale è in qualche modo classico. Un album che si presenta, nel mezzo prende coraggio e si esprime appieno e poi, al momento del “cali il sipario”, offre quieti momenti di religiosa oscurità: “Il regno dei cieli” è “la nebbia che copre l'entità dell'assente e ci nasconde le prove”. Il gospel che segue è il gospel secondo i Baustelle. Filologico, ma le voci black cantano: “Mio Signore, vienimi a salvare quando ho sete, ho fame o devo vomitare, vieni mio Signore, vienimi a salvare”.
“Cuore”, alla fine, ci manda a casa. Ci mandano a casa la voce cristallina di Rachele, un pianoforte e un violino. E il solito impeccabile mix di versi e melodia. Brutto tornare a casa dopo “Elvis”, scoprire che il mondo là fuori non assomiglia granché a lui. Perché Elvis è mito, sempre più lontano e inafferrabile man mano la Storia procede facendo altre indigestioni e altre baldorie. Mentre “Elvis”, tra due virgolette, è qui: dieci canzoni da vivere, toccare, cantare. Lame per l’anima, baci per il cervello, caramelle per i nervi.