Il film cult del ’78 è stato mandato alla gogna con accuse di sessismo, bullismo, omofobia e incitamento allo stupro. Ma Grease è solo una delle vittime di un trend perbenista che ci sta sfuggendo di mano.
La spensieratezza è una virtù che stiamo distruggendo giorno dopo giorno con le nostre stesse mani. Stiamo disimparando a vivere con leggerezza, come se non bastasse il morbo a privarci delle cose futili e belle della vita, per inerzia anche la nostra mentalità si sta irrigidendo. Non siamo più capaci di goderci un film senza prima aver subito un bombardamento di avvertenze. Non basta più il bollino rosso, accendere la televisione ormai è come leggere il bugiardino di un farmaco. Siamo vittime di un invecchiamento di massa, ma l’abbiamo voluto noi. E la cosa più spaventosa è che i nuovi giovani sono i pionieri della chiusura mentale più nociva, quella che si traveste da inclusività e attacca con la polemica.
La notizia ormai ha fatto il giro del web: il giorno di Santo Stefano il canale inglese BBC1 ha trasmesso la pietra miliare del cinema firmata Randal Kleiser, una mossa non del tutto inaspettata considerando il periodo festivo e il fatto che il cult movie macini ascolti da record da più di quarant’anni. In men che non si dica, su Twitter alcuni giovani spettatori (probabilmente smanettoni in lockdown) stavano già gridando contro il patriarcato. Ed ecco che Grease si è rivelato per quello che è sempre stato, un abominio cinematografico pregno di insulti al sesso femminile, bullismo e omofobia. Detective Scooby-Doo ha finalmente smascherato il colpevole strappandogli la maschera da innocua commediola musicale. Scemi noi che non ce ne eravamo accorti, o magari addirittura complici del misfatto, per aver malauguratamente contribuito come pubblico pagante al successo del film. Ma dopo Via Col Vento e i cartoni animati della Disney, Grease è solo un altro pretesto, una preda facile con l’unica colpa di essere un film ambientato negli anni ’50, quando i poliziotti picchiavano gli omosessuali nei bar. Non che si voglia perdonare l’imperdonabile: certe pellicole rappresentano il ritratto di un mondo che per fortuna non esiste più, ma che se non ci fosse stato oggi non saremmo così consapevoli. Secondo quest’ottica potremmo piuttosto compiacerci della nostra evoluzione sociale, invece di istituire la nuova Inquisizione e fare la caccia alle streghe. Siamo tutti abbastanza adulti per giudicare ciò che è moralmente giusto o sbagliato, ma sempre troppo piccoli per comprendere che il proibizionismo ci porterà solo e inevitabilmente all’ignoranza.
Ma non c’è nessun mostro che si nasconde nella pellicola del ’78. Il male non si cela nel personaggio di Putzie che guarda sotto le gonne delle ragazze, o in Sandy che si toglie il tunicone da Monaca di Monza per infilarsi una tutina nera aderente. Nel 2021 saremmo tutti un branco di ipocriti se ci lasciassimo sconvolgere da una ragazza che si veste in modo sexy per sentirsi socialmente accettata. Se ci tenete a combattere questa battaglia accendete Uomini e Donne, cominciate a revisionare e censurare quello che ci può davvero danneggiare cerebralmente, ma lasciate stare Olivia Newton Jones. La mostruosità si cela nell’importanza che oggigiorno si dà ai cosiddetti commenti dei leoni da tastiera, che non sono più gli annoiati di mezza età come dieci anni fa su Facebook: l’indignato speciale è diventato il giovane, quello che fa parte del #MeeToo o del #BlackLivesMatter solo perché va di moda farne parte, ma non ha ben capito di che cosa si tratta. Ogni accusa è un trend, la velocità in cui la moda del momento si trasforma in un movimento di opinione è disarmante. Stiamo calpestando, senza accorgercene, il margine tra il paradosso e la realtà. La cultura dell’inclusione ci sta fagocitando perchè non sappiamo più cosa è giusto e cosa è sbagliato, quindi per pigrizia condanniamo tutto: è tutto grave, greve, discriminatorio e imperdonabile. Il risultato però non è la parità dei diritti, ma una “preghiera” che termina con Amen e Awoman. Un’imbarazzante dittatura progressista.