«Cazzo, mi faccio io, Ferdinand. Non mi creperai mica adesso che il peggio è passato!». In Louis-Ferdinand Céline c’è del rumore di fondo. Lo sentirà in testa per tutta la vita e lo senti anche tu fin dalle prime pagine di Guerra (Adelphi, 2023), la trascrizione di una prima stesura di un romanzo posteriore a Viaggio al termine della notte. Una «tempesta» che si «porta appresso» che sbudella la sintassi, le immagini, il movimento degli occhi. Forse, anzi, i rumori sono tre. C’è un rumore esterno, le sue urla di dolore; un rumore interno che lo accompagnerà per sempre; infine un rumore della lingua, che per questo è come se fosse parlata, ascoltata dalle pagine del libro, con una cadenza pesante, magari tirata ai bordi dall’alcool. Guerra di Céline non è una vera storia, né un tentativo di mettere ordine alle cose. Ma se l’America ha avuto La stanza enorme di E. E. Cummings (1922), la Francia può ora raddoppiare. Oltre al Viaggio questo nuovo mucchio di frasi scritte a mano, alcune delle quali di difficile trascrizione e comprensione (alcune parole, sfortunatamente, sono illeggibili). In un certo senso esulando dalla sfera letteraria, la fortuna di questo ritrovamento, a sessant’anni dalla morte, restituisce però – è la prima volta – un’immagine della Prima Guerra Mondiale fatta della stessa sostanza dei dilaniamenti e del disincanto, oltre che della solitudine. E in qualche modo questa sensazione, «alla fine sembrava rimasto solo il sottoscritto in quello schifo di avventura», si replica nel panorama letterario. Céline è solo, dotato di una scrittura esclusiva, storpia, che vive appunto di malelingue.
Certo, a volte la sua rabbia vale più della sua scrittura, ma il modo in cui la realtà cede spazio alla fantasia, come un sole che tramonta nel fantastico, nell’invenzione, compensa lo scarto che a volte c’è tra gli eventi vissuti e le parole, quasi sempre brutali, usate da Céline. È giusto notarlo, pensando alla Prima Guerra Mondiale. Céline non è Ungaretti. Non ha bisogno di esserlo, ma è importante rimarcarlo. Céline non ha l’intelligenza di Cummings, né le parole del nostro poeta. Ma non importa. Céline ha quel rumore nell’orecchio, l’acufene, che tra tutti i suoni è il più sottile, il più tagliente. C’è chi ha tentato, attraverso Guerra, di ricostruire la vita dello scrittore francese, tornando anche sull’ipotesi di una figlia avuta con un’infermiera, che avrebbe ispirato il personaggio di L’Espinasse, sostanzialmente una dominatrice. Nulla di più sbagliato. Ciò che serve tenere a mente è, al massimo, il coraggio, la foga, la fame, le medaglie all’onore. Céline scrive come vive la guerra e vive la guerra come una forma di scrittura. Sbarra, collega, taglia, riscrive, setaccia, corregge, sbaglia, cancella. E lo fa con impeto, quasi una forma di drammatico entusiasmo. È esattamente ciò che manca oggi. Quella tetra forza che la scrittura dovrebbe avere. Insomma, dove sono finiti gli scrittori come lui? Saint-Exupéry era un trasvolatore, Hemingway è stato un pugile, un abile cacciatore (a soli dieci anni), un volontario della Prima Guerra Mondiale in Europa e molto altro ancora. Potremmo continuare. Il dissidente Lorca, il morto di fame Corso, il vagabondo orfano di madre (assassinata) James Ellroy e così via. Oggi chi abbiamo? Forse è questo il punto. Guerra di Céline è un manoscritto che, nonostante i propri limiti, apre le porte del retrobottega della mente, in quello spazio oscuro alimentato dall’oscurità. Oggi l’oscurità è ipotecata a favore dei follower, del Premio Strega. Quando non lo è diventa finta, fatta per giustificare il fatto di essere rimasti incastrati nella nicchia. Allora ecco perché leggere Guerra e ringraziare Adelphi. Un libro imperfetto, potente, che potrebbe essere la più grande novità di quest’anno letterario a livello mondiale. La cura e la dedizione di Adelphi si maniera altissima. Lo stesso, purtroppo, non si può dire della contemporaneità.