Faccio una veloce e onesta premessa che sa di piccolo spoiler: questo editoriale sarà una dichiarata ma educatissima critica all’ultimo video-singolo dei Mansekin, band della quale, mettiamolo subito in chiaro, sono assolutamente fan da anni (“ho molti amici fan dei Maneskin”, ndr).
Ho sostenuto il quartetto romano durante Sanremo, ho gioito quando hanno sverniciato mezza Europa durante l’Eurovison, ho ascoltato molti loro singoli in momenti della mia vita in cui avevo bisogno di qualcosa di bello che toccasse le mie corde emotive.
Ed è proprio per questo che di fronte a “I wanna be your slave” mi sento un po’ a disagio e molto delusa da un’occasione mancata.
Non starò a spendere parole sul singolo dal punto di vista musicale, per quello ci sono gli esperti, che tra l'altro non si sono espressi esattamente benissimo; io vi lascio solo un consiglio: se siete fan e avete più di 25 anni non traducete il testo, datemi retta. Musicalmente non dispiace più di tanto, ma il pensiero dei detrattori o semplicemente di chi ha avanzato delle critiche potrei riassumerlo così: se poteva fa mejo. Sotto tutti i punti di vista.
Il singolo di per sé non è granché: per carità abbiamo sentito di peggio, ma anche di meglio e tra l’altro sempre dai Maneskin.
Il video è a cura di Simone Bozzelli, classe 1994, premiato dalla critica durante il 35esimo Festival di Venezia: anche lui come Damiano&Co ha fatto di meglio in vita sua.
Girato tutto in pellicola, con più fisheye cam che in “Camera Caffè”, cosa che mi ricorda “The Blair Witch Project”, finisce col risultare noiosetto: cita elementi anni '70, '80, '90 senza essere particolarmente organico. Il filo conduttore sarebbe la provocazione, scelta che di per sé non provoca nessun moto di stupore e lo scopo (mavvà? davvero?) sarebbe il raccontare : “con crudezza tutte le sfaccettature della sessualità e come possono essere influenti nella vita di tutti i giorni” (cit).. Anvedi ahò.
Ad essere onesta mi stupisce sempre constatare come, nel 2021, qualcuno ritenga ancora che per scioccare possa bastare vestire degli artisti con borchie firmate Gucci, confezionare un video moda inserendo elementi bdsm, fetish e compagnia bella senza veramente coglierne il lato erotico, cercare di raccontare superficialmente il rapporto tra “Slave e Master”, miscelare il tutto, buttarlo sul web e vedere quanti adolescenti confusi abboccano all’amo.
Ora, di grazia, la “crudezza” scelta dai Maneskin ha per caso toccato qualcuno?
Probabilmente vedere Damiano in lingerie femminile e tacchi a spillo sì, deve avere turbato i sonni di molti. A me personalmente hanno turbato i suoi capelli, ma io mi faccio sconvolgere dai dettagli.
Nel caso in cui a qualcuno dovesse venire di nuovo in mente di strizzare l’occhio al feticismo, per capire come raccontare in modo convincente il rapporto “schiavo/padrone” e i suoi equilibri di potere, magari cercando di superare lo step delle “50 sfumature di noia e di sesso da casalinga repressa”, raccomandiamo la visione di un film: “The Secretary”, con Maggie Gyllenhaal. Perché, diciamocelo, da una band che sta spaccando in tutto il mondo, osannata, ammirata e invidiata da tutti i “wannabe” nostrani, noi ci aspettiamo prodotti che vadano oltre il compitino ben fatto che un qualunque studente di regia dello IED avrebbe potuto fare alla fine del secondo anno, sul tema “Immagina trasgressione e ambiguità in uno spot per Gucci” (Si, ancora Gucci. Non continuo a citarlo perché sono pazza o perché speri negli sconti in boutique, ma perché è il brand ufficiale che li ha agghindati).
Manco la fatica di rifarsi a perle storiche come “Relax” dei mai dimenticati Frankie goes to Hollywood (che il mondo delle borchie e degli harness lo descrive molto meglio) e nemmeno i Right said Fred o Marilyn Manson.
Pure il montaggio, che sembra promettere grandi cose, alla fine ti rimbambisce e basta tra stacchi di camera, sputi, piedi su plexiglass, mele leccate e laccate. Insomma, un po’ isterico, ma senza mai raggiungere l'effetto di zapping nevrotico che si fa col telecomando, alle tre di notte, quando ormai hai finito tutto il catalogo di Prime Video, Netflix, Sky e Pornhub.
Ma la colpa di tutto questo, naturalmente, non è dei componenti della band. Come si fa a voler male a un gruppo di ragazzi il cui membro più vecchio è del 1999? Comprensibile la voglia di stupire, di uscire dalle righe. A mal consigliarli è chi sta intorno a loro. Chi sembra dimenticare che, nel 2021, proporsi come il nuovo che avanza, facendo leva sul glam rock, sull’eyeliner e sull’ambiguità, esattamente come tre quarti dei membri dello star system mondiale ha fatto a partire dagli anni ‘70, cavalcando quell’onda lì, sfoggiando corsetti simil Vivianne Westwood e limonando metà dei membri della propria band, be’, più che di nuovo, sa di cracker stantio.