Per me Diego Pablo Simeone è l’uomo. Lo vorrei allenatore dell’Inter come lo è dell’Atletico Madrid. A vita. Lo vorrei imperatore. Monarca, uno così. Simeone è la Guerra e l’Amore. Arriva da un’altra epoca, l’epoca dei gladiatori. È vittoria e sconfitta. È sport. È vita, Diego Pablo Simeone. Ieri sera, prima che i Maneskin vincessero l’Eurovision (che poi, parliamoci chiaro: pare un Sanremo russo), Simeone ha vinto lo scudetto spagnolo con l’Atletico Madrid. Una squadra da battaglia, nettamente inferiore al Barcellona e al Real ma che attraverso il suo spirito, lo spirito che gli ha infuso Diego Pablo Simeone, riesce spesso a batterle.
Simeone è passato da sconfitte all’ultimo minuto di finali di Champions League. Allena l’Atletico da 11 anni. È passato da campionati persi negli ultimi minuti. E sempre a opera di squadre spagnole, quelle due di cui sopra, anche in Europa. Mi sono sempre chiesto: come fa a ritrovare la motivazione dopo cadute così pesanti dal punto di vista emotivo e restare all’Atletico e ricominciare da capo, a caricare i suoi ragazzi, a convincerli che possono ripartire e riprovarci? L’ho sempre chiesto a chi di calcio (e di vita) penso ne capisca. Chi mi ha aiutato a rispondermi con la risposta che reputo più convincente è stato Lele Adani: quando smetti di essere solo un allenatore e diventi un capopopolo trascendi la vittoria e la sconfitta; non importa se sbagli, se cadi; se dimostri lealtà e visione e coraggio il popolo ti percepirà come la tua guida. E ti farà sentire ancora potente e forte e capace di recuperare le energie fino a riuscire a irradiarle a tutta una squadra, una città. Un popolo.
Ieri l’Atletico giocava contro il Valladolid, a Valladolid. Se vinceva, vinceva il campionato; se il Valladolid perdeva, retrocedeva. Se pareggiavano gli sconfitti sarebbero stati entrambi, perché il Valladolid sarebbe sceso lo stesso in serie B e il campionato l’avrebbe vinto l’altra squadra di Madrid, il Real di Zidane. O victoria o muerte insomma. L’Atletico perdeva 1-0 fino a metà del secondo tempo. Poi Correa ha segnato di punta da fuori area. Di punta, sì, come al campetto di strada. Poi Suarez ha approfittato di un errore e ha fatto il 2 a 1. Suarez, sì, lui che era stato fatto fuori dal Barcellona, è passato dalla vicenda degli esami finti con la Juve, e si è ritrovato a Madrid lato Simeone, che gli ha detto: ti danno per finito, fagli vedere che sei ancora l’attaccante più forte del mondo. A fine partita Suarez piangeva al telefono in videochiamata coi suoi figli.
A fine partita piangevano anche i giocatori del Valladolid. Ed è qui che l’uomo Simeone si è mostrato nella sua grandezza. Ha smesso di esultare ed è andato ad abbracciarli. Perché lui sa. Lui conosce le lacrime, le sconfitte, arriva da retrocessioni anche lui (da giocatore), da esoneri, da delusioni pesanti dopo anni e giorni di lavoro. Eppure ha sempre trovato la forza, la spinta, di rialzarsi. Quegli abbracci a quei giocatori dicevano questo: so cosa si prova, solo con il lavoro quotidiano ti salvi.
L’unica volta che ho visto una partita dell’Atletico Madrid dal vivo io non guardavo il campo, guardavo Simeone. Fu quella partita in cui Simeone, dopo un gol alla Juve, si girò verso la tribuna, si prese le palle in mano e urlo: noi abbiamo i coglioni! Per quel gesto è stato massacrato. Volgare, maschilista, non di esempio. Si è scusato di quel gesto? No. L’ha spiegato, era figlio della foga, della tensione, ma non si è scusato.
Nella stessa sera in cui i Maneskin hanno vinto l’Eurovision con una canzone con il testo ritoccato dalle parolacce (altrimenti non avrebbero potuto partecipare) mi piace definire le distanze: i Maneskin non sono rock, anche se non sono male, e anche se sono eccentrici. Simeone lo è. A essere rock sono gli atteggiamenti, la storia che hai e che ti sei costruito con le scelte che hai fatto. Non come ti vesti. Vamonos Diego Pablo Simeone.