Jöel Dicker è il Cristiano Ronaldo della letteratura internazionale. Lo scrittore francofono più tradotto al momento, record di vendite, una serie diretta da Arnaud (Il nome della rosa, Sette anni in Tibet, eccetera). Dicker ha reso credibile i luoghi comuni sull’America dei thriller, con atmosfere misuratissime. Uno scrittore ginevrino in grado di rendere gli Stati Uniti credibili come scenario noir rispetto a molti nuovi autori, forse fin troppo incastrati nei diktat sociopolitici che richiedono sempre di più di tratteggiare la realtà per ciò che è, fregandosene delle necessità della letteratura come strumento di incontro. Incontro che Dicker auspica in ogni momento.
Siamo stati alla collettiva nella sede della casa editrice La Nave di Teseo il giorno dell’uscita in Italia del suo ultimo libro, Un animale selvaggio, un romanzo - stavolta ambientato proprio nella sua città natale - che segna una svolta per lo svizzero dopo la trilogia di Harry Quebert. Entra, altissimo, in una stanza piena di donne in evidente adorazione. È uno di quelli che hanno uno stile, un talento da coltivare nei movimenti, nel modo di tirare il collo verso l’alto mentre parla. Indossa una maglia blu scuro, dei pantaloni casual e delle scarpe bianche sportive. Non somiglia a uno di quegli autori depressi, che sono stati troppo a contatto con i propri demoni e le proprie storie noir. Non ha intenzione di sembrare il classico scrittore consumato da un’immateriale follia, che spesso fa vendere ma diventa a sua volta un cliché, un’eresia fatta norma. Banale.
Dicker non è banale. Lo incontro in una sede stupenda a pochi minuti dalla fermata della metro Cadorna. In una stanza con un tavolo raffinato al centro, delle librerie – una delle quali interamente dedicata a Umberto Eco e, poco più in basso, a Sandro Veronesi –, dalle finestre si vede Parco Sempione, dietro qualche albero dovrebbe spiarci il Castello Sforzesco.
Inizia a parlare, il timbro come grattato dal lato ruvido di una spugna per i piatti. Anche la sua voce non è banale. Ha tutto. Il successo, il talento (il dono), la bellezza, il fascino, l’intelligenza di trattarci senza vendersi e, allo stesso tempo, senza snobismo. Forse per questo somiglia in modo particolare proprio al suo ultimo libro, che cambia definitivamente il percorso dello scrittore: “Non volevo rispettare ciò che dall’esterno gli altri si aspettavano da me. Mi sono sfidato con questo nuovo libro”. E in effetti spazia. Non si tratta neanche tanto della storia quanto del fatto della scrittura, lo scrivere storie come sfida personale, autoriale, letteraria. “Sono un cuoco terribile, ma quando hai fame non vai a mangiare, ti chiedi cosa tu voglia mangiare. E se non trovi qualcosa che ti piace, esci e vai al supermercato e mangi. Avevo fame e non sapevo bene cosa volessi. Volevo più libertà. E mi sono sentito libero mentre raccontavo la storia”.
Dicevamo, il punto di incontro di vite diverse, punti di vista opposti, tutto diverso fuorché la sospensione degli impegni per leggere un romanzo. “La letteratura è ciò che può tenere le persone insieme. In un mondo sempre più incapace di stare insieme, di tenere insieme diverse visioni della vita, diverse opinioni, serve una forza che permetta di vivere con idee diverse. Ma persone con idee diverse, età diverse, origini diverse, possono unirsi e parlare di un libro, di un romanzo ecc. Non su fb o su Instagram, spendendo tempo insultandosi o leggendo e diffondendo fake news. Si parlano con la letteratura”.
Se l’omicidio è stato un modo di costruire un filo rosso, un’autostrada utile al lettore per rimanere incollato al libro, stavolta Dicker, che non si definisce un giallista (“non mi ritengo uno scrittore di crime”) cancella l’idea di un omicidio e costruisce un romanzo intorno al problema dell’istinto, spesso soppresso, nella nostra epoca. “È strano, perché nei miei libri c’è sempre qualcuno che muore”.
Per la scrittura si è concentrato su un lavoro difficile ispirato da un fallimento notevole, quello di Conrad che, con Lord Jim, ricevette le critiche di chi non riteneva possibile che le vicende raccontate si fossero svolte nell’arco di una sola notte. Dicker, invece, ha tentato di far combaciare tempo della lettura e tempo della storia. “Volevo scrivere qualcosa che venisse letto mentre la storia procedeva, in parallelo. Mi sono concentrato su quello che volevo far venire fuori, non su quello che altri volevano. La lettura era sulla stessa linea temporale della storia. Doveva essere: l’azione dura quattro ore, la lettura dura quattro ore”.
Questo implica molta fiducia in sé stessi ma anche nel lettore. E questo rispetto per il pubblico è tra i motivi per cui Un animale selvaggio è leggermente più breve dei suoi soliti volumi. “Nei libri passati, andando avanti e indietro nel tempo, qualche volta mi sentivo di dover ricapitolare quello che stava succedendo. Nei miei libri precedenti ripetevo cose già dette. Qui mi sono fidato del processo e del lettore e non ho ripetuto cose già dette”.
Ma chi è l’animale selvaggio della storia? Il vero io. “L’animale selvaggio è chi siamo. Nel mondo in cui viviamo si esprime in varie forme, come nella socialità. Alcune volte riusciamo a tenerci le cose dentro, a essere ben disposti, ma talvolta fermiamo i nostri istinti. Quando siamo nati il nostro istinto è qualcosa che permette al bimbo di sopravvivere. Spesso invece di seguire il nostro istinto chiediamo dei consigli anche a chi non c’entra niente con noi e con ciò che vogliamo fare”.