A volte basta aprire un libro per capire come stanno le cose. Anche se il libro raccoglie dei contributi di cinquant’anni fa. È il caso de Il costume di casa. Evidenze e misteri dell’ideologia italiana, di Umberto Eco, ripubblicato da La nave di Teseo dopo una prima edizione del 1973. Un librone in cui si smascherano davvero costumi, vizi e vizietti italiani, un esercizio di “pratica della diffidenza quotidiana”, utile per capire in che direzione dovrebbe andare il giornalismo. Quale giornalismo? Quello che ora sta prendendo la direzione opposta e recupera concetti inutili e ideologici, persino manipolatori: dalla presunta obiettività della notizia al fatto che i giornali debbano semplicemente dire la verità. Come se fosse una cosa semplice, come se fosse possibile. Umberto Eco, nella prima parte di questo volume, Italia nostra, smonta qualsiasi pretesa positivista. Ma come, proprio lui, lo studioso di complottismo? Il precursore, secondo alcuni, della battaglia contro le fake news? Proprio lui. Perché non dare notizie false non equivale a dare notizie solamente vere o, addirittura, notizie obiettive. A questa convinzione sono arrivati prima i politici, che hanno fatto della retorica e di un loro personalissimo “cifrario” un’arma per ammansire le masse. Così se un politico democristiano dice “non un monocolore democristiano ma bensì dei democristiani nel monocolore”, in realtà vuole dire: “Noi governeremo ma non assumiamo responsabilità per quel che faremo governando”: “Salvo che la cosa - spiega Eco - era detta in modo più grazioso, mediante una raffinata figura retorica che sui trattati classici si chiama ‘antimetabole’”. Ma in un modo o nell’altro questo vale anche per il mondo dell’informazione.
Riprendendo una discussione avuta sulle pagine dell’Espresso con Piero Ottone, Indro Montanelli, Eugenio Scalfari e Giorgio Bocca in seguito a un suo articolo, œIl lavaggio dei lettori, Eco torna sul tema della obiettività, un mito che si presta bene a sopravvivere nell’economia pratica di quella che viene definita “ideologia del giornalismo moderno”. Il ché, ovviamente, non vuol dire che non si possa fare giornalismo. Ma che il giornalismo non sia un atteggiamento lineare che trasporta la verità da un lato del fiume all’altro. Anzi, potremmo dire che la verità è o la capra, o il lupo o i cavoli del famoso rompicapo: “Dire che la comunicazione giornalistica è piena di difficoltà e non chiara e semplice come si vede nei film americani degli anni Trenta (io so la verità e la dico, i gangster tentano di ammazzarmi, ma alla fine la verità vince e l’opinione pubblica è con me; cfr. Topolino gangster) non significa dire che c’è incomunicabilità”. Preso coscienza di questo dovremmo allora compiere un atto di trasparenza nei confronti del lettore: “Parlare di ‘mito dell’obiettività’ significa dire: non si dà una notizia se non interpretandola, e non altro per il fatto di coglierla”. E lo fai in molti modi, dal taglio al titolo, dall’impaginazione alla posizione nel quotidiano (o nella home del sito), passando per le foto e il sommario.
Un esempio recente: dopo il discorso del regista Jonathan Glazer per la vittoria agli Oscar de La zona di interesse, i giornali del mondo hanno scelto di trattare la notizia i modi diversi. Per esempio il New York Times, uno dei più importanti giornali americani, ha titolato l’articolo così: Jonathan Glazer Condemns ‘Occupation’ and Violence in Israel and Gaza. Il Guardian, una delle maggiori testate del Regno Unito, così: ‘We stand here as a Jewish men who refute the Holocaust being hijacked’: Jonathan Glazer calls for the end to Gaza attacks at Oscars. E, infine, Repubblica, tra i più importanti giornali italiani: L’Oscar per il miglior film internazionale va a ‘La zona di interesse’. Glazer: “Contro gli attacchi del 7 ottobre a Gaza”. È chiaro che la notizia sia la stessa, il discorso di Glazer alla notte degli Oscar, ma tre giornali diversi l’hanno trattata in modo diverso. E nessuno dei tre ha detto soltanto la verità. Repubblica, chiaramente, si è concentrata su un aspetto maggiormente coerente con la sua linea editoriale: la denuncia dei crimini di Hamas. Il Guardian ha fatto lo stesso ma concentrandosi sui crimini di Israele a Gaza. Infine, Il New York ha parlato di una condanna delle azioni di entrambe le parti. Sono stai i più neutri? No. Persino questo titolo apparentemente obiettivo (Glazer ha effettivamente condannato sia l’attacco di Hamas che la reazione di Israele) ci dice qualcosa sulla linea editoriale del NYT. Per esempio che sicuramente il New York Times ha scelto di non sbilanciarsi né da una parte né dall’altra. Perché? Perché sono più obiettivi degli altri? O perché il tema è contraddittorio e molto discusso anche tra i suoi lettori? Come evidenziato da Jill Abramson, la prima donna a diventare direttrice esecutiva del New York Times, nel suo libro Mercanti di verità. Il business delle notizie e la grande guerra dell’informazione, anche il Nyt, soprattutto dopo l’ascesa di Trump, si è concentrata con impegno su notizie e tagli che potessero piacere al proprio pubblico democratico.
Ma potremmo sbrigativamente sostenere che nessuno dei tre giornali ha fatto un buon lavoro giornalistico? No. Probabilmente il Nyt ha portato a casa l’articolo migliore dei tre, mentre Repubblica ha quasi storpiato il senso palese del discorso di Glazer e il Guardian ha dimenticato una parte. Insomma, la mancanza di obiettività non equivale necessariamente a fare cattivo giornalismo. Come spiega Eco, “il giornalista non ha un dovere di obiettività. Ha un dovere di testimonianza”. E allora la cattiva notizia non è la notizia non obiettiva, ma “quella in cui giudizio di valore ed esposizione del fatto si mescolano”. Cosa significa tutto questo? Che il giornalismo non ci offre un’immagine del mondo com’è, ma solo di ciò che - per la redazione, l’editore e così via - “fa realtà”. Il che, continua Eco, “non è male, è umano e ragionevole. Basta non nasconderlo al pubblico”. Quando non si è onesti, invece, si finisce per fare come i politici e manipolare l’informazione fregandosene ampiamente del senso del giornalismo in una democrazia: offrire una alternativa (non la verità universale; per quello ci sono i ministeri della Verità). È quello che accade quando, per esempio, si sceglie di “non visualizzare e dunque di rendere prive di interesse le notizie più scomode”. In questo casi “il telegiornale [ma vale anche per i quotidiani ormai, ndr] affoga le cose di rilievo in una sorta di borborigmo continuo che attenua l’attenzione del telespettatore”.