Storia di un Cosobo è una moderna novella filosofica scritta dall'intellettuale bolognese Stefano Bonaga e MOW, in esclusiva, pubblica un estratto di Cosastrofi. Giovanni, il protagonista, oscilla tra l'indifferenza e l'odio verso le cose, verso la stessa gravità, mentre mal sopporta (ma sopporta) gli uomini, che lucidamente continua a considerare al pari di qualsiasi altro ente. Ma gli oggetti, anche quelli gettati, sembrano cospirare contro di lui.
Avvertenza dell'autore
C’è la Cosa, questione ontologica, e ci sono le cose, questione esistenziale. Di esse si occupa il Cosofobo.
“Cosastrofi”, un estratto da “Storia di un Cosofobo”
Giovanni vive da solo e sopravvive con gli altri. Man mano che cresceva, Giovanni si accorgeva progressivamente di capire sempre meno del mondo, finché una sera al tramonto si trovò a smettere di voler capire e cominciò unicamente a reagire agli stimoli come un ente qualsiasi della natura privo di riflessione. La sua quotidianità si configurò da allora come una continuità di processi stimolo-risposta. Istintivamente egli pensava che gli umani e le cose hanno la stessa natura, tuttavia, sopportava neutralmente gli umani, mentre percepiva nelle cose o una indifferenza insopportabile o una ostilità congenita. Questa è la breve storia non cronologica di Giovanni.
Alle sette del mattino, Giovanni si trova ad alzarsi al suono della sveglia che egli comincia ad aggredire verbalmente: “Fanculo sveglia di merda, maleducata, non potresti suonare un po’ più piano? Stronza!”. Giovanni lavora come maschera di un cinema, cosa che gli consente di ridurre al minimo il suo rapporto tattile con le cose: durante il lavoro egli controlla i biglietti e non si accorge nemmeno della mano che glieli porge. In qualche modo i biglietti del cinema sono gli unici oggetti che egli rispetta, con le rarissime eccezioni di quando cadono in terra, nel qual caso li raccoglie borbottando comunque: “Stronzo di biglietto! Ma perché cadi inutilmente?”. Peraltro, in generale Giovanni è tormentato dalla forza di gravità, che fa cadere tutto. Naturalmente egli non pensa in alcun momento di esserne la causa; percepisce ciò come una specie di complotto fra oggetti ostili con la complicità irritante della forza di gravità. Giovanni apprezzerebbe una forza di gravità adattabile e personalizzata, che ferma gli oggetti non monotonamente al livello del terreno, ma all’altezza della comodità dell’utilizzatore: la penna che cade dovrebbe fermarsi laddove la mano la può afferrare al volo! A che titolo bisogna che tibia e perone siano coinvolti nel banale e fastidiosissimo inginocchiarsi per recuperarla? Egli trova perfino più simpatica una fetta di pane che si schiaccia per terra dalla parte del burro perché la perfidia di questo fenomeno ha un tocco di crudele nobiltà, mentre il muro imbecille contro cui Giovanni batte la testa è miserabile: “Accidenti a te!” urla Giovanni “immobile idiota manufatto troppo inutilmente duro! Impara almeno dalle pareti di legno!”
Gli umani a Giovanni risultano meno odiosi delle cose: mentre essi sono ugualmente privi di qualunque libertà del volere, ciò che implicherebbe il creare qualcosa dal nulla come Dio e dunque ogni loro atto è l’effetto di una infinita catena di macro e micro cause, almeno gli umani hanno la decenza di atteggiarsi talvolta responsabili; mentre le cose, con l’impudenza dell’esibizione della propria innocenza, con la volgarità del proprio esser così perché di sì, Giovanni non solo non ignora tale esibizionismo spocchioso, ma ne è provocato radicalmente. Cosa c’è di più provocatorio della resistenza di tutti i materiali impacchettati in plastica? Tutta quella plastica che resiste al normale tentativo di raggiungere il contenuto, dalle semplici sigarette chiuse nel pacchetto, che peraltro è inspiegabilmente avvolto da un film fine e scivoloso che costringe le dita a spasmodici sfregamenti, alla ricerca di un microscopico lembo previsto essere sollevato, ma quasi sempre introvabile.
Come compensare tale frustrazione da parte di Giovanni se non sfogando la propria rabbia: “Teste de cazzo di sigarette impacchettate! Merde inaccessibili! Che vantaggio avete a farmi impazzire per aprire il pacchetto? Avete paura che vi fumi!? Andate a fanculo voi e il pacchetto!”.
Giovanni calpesta di solito almeno due su tre dei pacchetti che compra e talvolta dà fuoco allo strato sottile della plastica con la intima soddisfazione dei teologi ortodossi di fronte al rogo di Giordano Bruno. Giovanni vive praticamente per punire le cose in quanto cose, al punto che anche le cose non ostili sono oggetto della sua aggressività. Anche quando il tubetto del dentifricio risponde educatamente alla pressione del dito e si posa sullo spazzolino, Giovanni esplode: “Che cazzo fai? Non è mica merito tuo se esci, è merito del dito che spinge! Ma vaffanculo anche te!”. Peraltro, infatti, la coerenza di Giovanni è alquanto discutibile, al punto che se le cose non funzionano, egli le interpreta come ostili provocazioni, e quando funzionano gli appaiono irridenti nella loro banalità di sfidanti: “Ma brava, sedia! Mi siedo e non ti rompi, che sforzo, complimenti, ma vaffanculo anche te!”.
Qualcuno, notando inevitabilmente l’aggressività di Giovanni verso le cose, aveva provato a parlargli di animismo; Giovanni si irritò: “Ma se neanche gli uomini o gli animali hanno un’anima, dovrebbero averla anche le cose? Ma neanche per sogno! Quello che mi fa imbestialire delle cose è la loro imbecillità, la finta inoffensività. Gli uomini fanno del male sapendo di farlo, sono crudeli volontariamente, le cose non lo sanno neanche, sono colpevoli di essere innocenti. Dunque non c’è nemmeno tanto gusto a punirle, a dar fuoco alle sigarette che non si aprono, alla bottiglietta di acqua minerale da cui si versa l’acqua passando inevitabilmente per il residuo del tappo e mai una volta che venga giù dalla parte giusta e dunque ti schizza in faccia, al barattolo dello shampoo che cade nell’acqua della doccia e si versa in terra, alle pagine del giornale talmente attaccate che sembrano una e ti costringono a insalivarle con le dita”.
Peraltro, Giovanni nutre una certa indifferenza per le strutture di oggetti coordinati. Una casa può essere considerata anche un oggetto, ma non è maneggiabile in toto, come le cucine economiche, o gli autobus, o i monumenti. Gli oggetti singoli, autonomi, trattabili a mano, questi sì che sono detestabili.
“Spaccare la biro che non funziona non mi interessa troppo”, dice Giovanni, “preferisco offenderla, disprezzarla, mandarla a fanculo”. Giovanni sogna un mondo senza cose, un mondo di res nec cogitantes nec extensae, l’eliminazione del tatto, dell’udito, del gusto, entità avvertibili solo con l’occhio, ma nemmeno, intuite con il pensiero, enti senza forma, enti indistinguibili che non lo costringano ad occuparsene. In qualche modo, Giovanni sogna una specie di inferno, abitato da ombre generiche e da un se stesso senza immaginazione né desideri, che non richieda la cura di nulla. Invece, in questo mondo, gli oggetti continuano a costituire un appello al loro uso, incombono e spesso tradiscono, Giovanni li considera una massa di stronzi. Nella prima infanzia, Giovanni fece l’esperienza traumatica del triciclo: a un compleanno, per fargli una sorpresa, glielo regalarono dentro a una grande scatola, invitandolo ad aprirla. Con l’entusiasmo tipico del bambino, Giovanni si buttò sulla scatola per scoprirne il contenuto; un’impresa bestiale: le manine tentavano di infilarsi nelle fessure del cartone ripiegato, senza esito. Dopo vari tentativi accaniti e dolorosi per le sue manine, i genitori pensarono di venirgli incontro prendendo la scatola per aprirla: Giovanni scappò via rincorso dalla mamma; quando infine apparve il triciclo, a Giovanni sembrò qualcosa di mostruoso, uscito da un cartone, ostile e resistente. Non vi salì mai. L’odio anche per le scatole di cartone nacque così.
Al tempo delle scuole medie, Giovanni si disinteressava dei compagni, dei quali peraltro detestava gli equipaggiamenti scolastici per la loro omogeneità: vedeva entrare trenta serie di libri, tutti tenuti con lo stesso elastico di gomma, usare gli stessi astucci, trenta penne biro tutte uguali, trenta uguali matite accompagnate da uguali gomme, gessetti che si spezzavano, lavagne che scricchiolavano, il delirio della pluralità delle cose uguali. I compagni lo picchiavano spesso, quando Giovanni si scagliava contro le biro e le gomme urlando: “Maledette! Quante siete? E siete brutte, una specie di stecchini a inchiostro! E voi gomme, delle raccogli sporco, vergognatevi!”
Giovanni si rifiutava di scrivere per ovvie ragioni, ma era bravissimo negli orali: l’orale non ha bisogno di niente, solo della voce, e tuttavia finì le medie a fatica dopo due bocciature, lo misero a casa dagli zii per due anni: si alzava alla mattina e si vestiva imprecando contro calzini e scarpe, poi se ne andava a passeggiare nel parco evitando i percorsi con presenza di panchine cantando a bassa voce canzoni di cui non dimenticava mai le parole anche se appena ascoltate. A diciotto anni decise di tentare di fare la maschera del cinema poiché, come già detto, questo lavoro non ha a che fare con nessun oggetto tranne che il biglietto, che peraltro, come già sappiamo egli aggrediva, nelle rare cadute a parolacce, però a bassa voce dovuta al timore del licenziamento da parte della gentile proprietaria che l’aveva assunto, conquistata dalla sua laconicità.
Giovanni non odiava il cibo in sé, anche se il momento di maggior soddisfazione per lui era costituito dal defecarlo, esserne abbandonato, liberato con la grazia dell’espulsione. Odiava, tuttavia, con tutte le sue forze, come in parte abbiamo già visto, qualunque forma di suo impacchettamento; infatti un suo sogno non era tanto diventare fruttariano, ma addirittura fruttarianal: sedere su una mela caduta e risucchiarla col culo evitando, dunque, il lungo percorso esofageo-intestinale del frutto, la sua permanenza eccessiva nel suo organismo. Qualcuno gli disse, però, che ciò non funzionava dal punto di vista nutrizionale. La rinuncia inevitabile a questo sogno aveva intensificato la sua aggressività verso gli impacchettamenti. Gli inutili tentativi di aprire le scatole di plastica del cibo cinese portatogli a casa, lo inducevano a prenderle a coltellate isteriche, con risultati pietosi per il cibo, ma meritatissimi per il contenitore, i contenitori stessi. Anche le scatolette di tonno, che prevedono di infilare l’indice nell’anello di metallo appiattito che si trova sul coperchio per aprirlo, alla seconda volta che tale cerchietto aveva procurato un taglio profondo al malcapitato dito, furono oggetto di una rinuncia definitiva accompagnata da insulti pesanti: “Ma ti sembra che tu debba essere tagliente, carogna di uno stronzo di anellino, ci vorrebbe tanto ad avere i bordi arrotondati, senza farsi male…vaffanculo te, la scatola e il tonno!”. Nella sua vita, due scatolette comprate, due finite nel bidone dei rifiuti, anch’esso odioso perché puzzolente. “Perché?” si chiedeva Giovanni quando aveva ancora un rapporto decente con la pasta, il tempo di cottura segnalato comportava più tempo per scoprire dov’era scritto, del tempo di cottura stesso, col rischio che se la pasta era già stata buttata nell’acqua, si scuocesse di brutto? “Dunque basta con la pasta!”
Frutta sfusa, ravanelli, carote, finocchi e taralli da aperitivo costituivano il suo cibo quotidiano, nudo e crudo.
Oltre alla necessità del mangiare, Giovanni fu naturalmente da sempre alle prese con la necessità di vestirsi, sarebbe andato in giro nudo (ma non era possibile) piuttosto che doversi infilare le calze con piegamenti innaturali (quelli che probabilmente l’avrebbero poi costretto ad operarsi all’anca), allacciarsi fastidiosamente le scarpe, poiché egli trovava i mocassini troppo ruffiani ed invitanti, infilarsi i pantaloni a rischio continuo di perdere l’equilibrio, o maglioni che passando faticosamente per la testa lo spettinavano senza permesso. Ogni mattina, la vestizione era tutto un imprecare, tutto un vaffanculo. Quanto all’ultima necessità, il dormire, poiché mai il desiderio sessuale lo aveva attraversato - come poteva infatti desiderare fantasmi indistinguibili? – dunque il rapporto con il letto. Quel letto là, impassibile, pigro, immobile e insieme pretenzioso in attesa perenne e dunque psicologicamente incombente, Giovanni lo detestava. Che fare allora? Oltre a scompigliare d’abitudine la posizione dei cuscini, anche loro pretenziosi nella collocazione alla testa del letto, quasi più imperativi del letto stesso, Giovanni si era abituato a saltare in piedi con le scarpe sulle lenzuola, scalciando i materassi, prima di cadere esausto e dunque facendo del sonno una disgrazia e non un atto di sottomissione.
Quando più tardi, infatti, Giovanni fu operato all’anca sinistra, subì come una violenza inaudita l’inserimento di un oggetto estraneo dentro il suo corpo per sempre; ma peraltro, quando fu costretto a muoversi con due stampelle per un mese, ciò che per chiunque altro sarebbe stato una maledizione, fu per lui una specie di epifania: questo stato che rendeva ogni rapporto con gli oggetti complicatissimo e pericoloso gli confermò non solo il diritto, ma la virtù manifestata dal suo odio: come spostare un piatto dalla mensola alla tavola senza imprecare contro di lui e offenderlo per la sua non maneggiabilità? E il fatto che egli dipendesse in ogni sua deambulazione da due oggetti/stampelle che quasi facevano parte di lui, inseriti nelle ascelle e nelle mani eppure pronti a cadere a destra e a manca, irridenti, lo rendeva soddisfatto. L’obiezione possibile sull’utilità di quelle due cose era irrilevante per una vita che non aveva mai avuto alcun senso né scopo. L’esperienza radicale della vita di Giovanni era il fastidio quotidiano e l’odio generato dalle cause del fastidio.
Giovanni era inoltre convinto che la grande quantità di cose che perdeva ignorandole si accumulasse in un unico luogo per complottare fra di loro ed eventualmente ripresentarsi più pericolose. Questo contraddiceva con la irresponsabilità da lui attribuita alle cose, ma Giovanni se ne era sempre fottuto delle contraddizioni.
In più, la trasparenza fantasmatica del genere umano, rispetto alla presenza ossessiva delle cose, gli impediva di emanciparsi attraverso sentimenti condivisi. Giovanni era solo, ma la sua solitudine non rasentava mai la nobiltà della ascesi, ma sprofondava nell’impaccio perenne procuratogli da una quantità di cose, che egli aveva perfino tentato un giorno di enumerare.
“Quante cose ci sono al mondo?” provò a chiedersi. Gli otto miliardi di abitanti del pianeta avevano a che fare a loro volta con moltissimi miliardi di cose comuni, dalle strade ai palazzi, ai porti, ai treni, ai ristoranti, ai dormitori, agli ospedali e via dicendo e da ancora più miliardi di cose personali, dalle scarpe agli orologi, dai pettini alle matite, alle saponette, ai letti, ai ciondoli, dai libri ai telefonini, fino alle sigarette e ai sex toys. Quanta roba c’era in giro! Egli nutrì per un attimo anche la speranza luciferina di trovare una formula matematica per contarle tutte, ma dovette desistere. Decise allora che laddove non funziona la legge universale doveva imporsi l’esempio: l’odio che egli provava per le relativamente poche cose che lo circondavano costituiva il modello per un atteggiamento universale: colpirne alcune per minacciarle tutte. Ecco la sua via maestra. Ben lungi dal pretendere una specie di riconoscimento generale della luminosità del suo esempio, Giovanni godeva nel sottrarsi ad ogni possibile e peraltro per lui irrilevante giudizio avente a che fare con l’umano. Il suo microscopico mondo era il qui e ora dell’Universo. Giovanni era, voleva essere e sarebbe sempre stato solo un COSOFOBO.