Sono tra quanti ritengono, credo a ragione, che nel raccontare una storia, qualsiasi storia, la forma che si decide di adottare nel farlo, lo stile, sia decisamente più importante della trama. Per intendersi, preferirei senza ombra di dubbio leggere un racconto che abbia una trama debole, ma sia scritta in un modo incredibilmente stiloso, che una storia scritta in maniera sciatta, al limite anche neutra, che però abbia una trama clamorosa. Sono nato, come scrittore, nel periodo durante il quale approdava nel mondo, non esattamente in Italia, l’avant-pop, figlio legittimo del massimalismo, credo che non ci sia nulla da meravigliarsi a riguardo. Per questo motivo, non solo per questo motivo, ma anche per questo motivo non ho mai capito il senso di avvisare il lettore dell’arrivo di uno spoiler, il cosiddetto “Spoiler Alert”. Non l’ho mai capito perché di sapere quel che sta per accadere in un racconto non mi è mai interessato, spesso e volentieri neanche registro gli snodi della trama, più concentrato sullo stile. Dire che questo aspetto sia in qualche modo slittato dentro il mio modo di scrivere anche pezzi brevi, come quello che state leggendo, credo, sia pleonastico, le risate che mi faccio quando qualche hater sui social arriva a dirmi che uso troppe relative, come se la cosa mi fosse capitata casualmente. Resta che non ho mai capito il senso di avvisare i lettori di uno spoiler, e non l’ho perché di sapere quel che sta per accadere in un racconto non mi è mai interessato, spesso e volentieri neanche registro gli snodi della trama, più concentrato sullo stile. Non l’ho mai capito ma so che questa è una mia modalità, qualcosa di molto personale, ragion per cui vi avviso, sta per arrivare uno spoiler. Uno spoiler posto proprio all’inizio di un racconto, forse non ve ne siete accorti, ma dopo milleottocento e rotti caratteri non ho praticamente ancora iniziato la trama, avvolto come ero dal mio stesso parlare. Lo spoiler che sta per arrivare, però, è uno spoiler circoscritto, arriverei quasi a dire irrilevante, perché interessa un numero davvero ristretto di persone, così piccolo da non essere neanche rilevabile per uso statistico. La cosa che infatti sto per anticipare, rovinando chiaramente una sorpresa, riguarda quanti, la sera della vigilia di Natale, si troveranno a cena a casa di mia suocera, dove genericamente passo le feste con la mia famiglia. Quindi riguarda la mia famiglia, la famiglia di mia cognata e mia suocera, un totale di undici persone. Anche meno, dal momento che tutti i componenti della mia famiglia già sono a conoscenza di quanto sto per andare a raccontare. Ecco, uno spoiler che riguarda quindi solo cinque persone, il nulla praticamente, ma che mi fornisce lo spunto necessario per far partire la mia narrazione, sempre che anche voi, come me, non siate tra quanti ritengono che lo stile è primario riguardo alla trama.
Mia figlia Lucia, che forse conoscete perché redige con me le pagelle di X Factor e collabora con me a intervistare i cantanti, lo ha fatto all’ultimo Festival di Sanremo, lo farà al prossimo, e nel mentre ha fatto con me il podcast Bestiario Pop, finito poi anche a teatro, mia figlia Lucia è stata a Lucca Comics, e quando è tornata ci ha fatto vedere uno dei suoi acquisti fatto in quella singolare fiera del fumetto, quest’anno ammantata di particolare hype a causa del legittimo boicottaggio di Zerocalcare e altri suoi colleghi, un maglione natalizio, verde, che invece che mostrare la classica renna di Babbo Natale raffigura il Grinch. Una sorpresa che vuole mostrare la sera della vigilia, quella che nella mia città natale, Ancona, è probabilmente il momento più importante delle festività, quello in cui ci si scambia i regali, quando i miei figli minori, i gemelli Francesco e Chiara, erano piccoli passava sempre un amico o parente travestito da Babbo Natale, per creare un po’ di magia, la cena con il menù più ricco, tutto a base di pesce, mentre il pranzo di natale è a base di cappelletti in brodo e di agnello fritto. Una sorpresa, il suo presentarsi a tavola con il maglione natalizio con su il Grinch che, da vero Grinch, ho spoilerato, contando ovviamente sul fatto che i miei cognati, i miei nipoti e mia suocera non leggano queste mie parole, fatto sul quale credo di poter contare senza correre troppi rischi. Il Grinch, quindi, il mio racconto parte da qui. Dai, va beh, è già partito ormai settecentoquarantatré parole fa, sono dovuto tornare indietro a contarle, perché nel mentre ho aggiunto un altro paio di frasi e la cifra che avevo inizialmente citato era sbagliata, ma diciamo che la trama, quella raccontabile in poche parole, hollywoodianamente, parte da qui, dal Grinch. E ovviamente da me. Io vengo considerato una sorta di Grinch, nella bolla del mio ambiente di lavoro. Uno che arriva a rovinare le feste, come Jep Gambardella, solo che lo fa in maniera così professionale e iconica da essere diventato a sua volta parte della festa stessa, parte di quel sistema che intendeva distruggere, operazione che a Jep Gambardella non poteva ovviamente accadere, a meno che non si voglia considerare il mondo del cosiddetto Cafonal il corrispettivo delle nostre festività natalizie, fatto che mi appare un filo azzardato. Teniamoci buono il Grinch. È innegabile che il Grinch sia parte delle Feste di Natale, almeno da che il Grinch è entrato anche nel nostro immaginario, credo grazie alla faccia di gomma di Jim Carrey, idem è per me e per le mie stroncature, le mie critiche del sistema, le mie inchieste a loro modo esplosive. Sono il Grinch anche per un altro motivo, tendo a starmene per i fatti miei, lontano dagli eventi mondani, dalle conferenze stampa, dai colleghi e da quei luoghi che i miei colleghi frequentano, cristallizzazione della prima parte della domanda eccebombiana “mi si nota di più se non vengo o se vengo e sto in un angolo”. Non ci sono quasi mai, al punto che quando ci sono passo buona parte del tempo a rispondere alla domanda, retorica, “Ah, ma ci sei pure tu, a cosa dobbiamo questo onore?”, appunto come un Grinch. E come un Grinch fatico anche a apprezzare l’idea stessa di festa, in genere, di quelle di Natale in modo specifico, sempre in imbarazzo quando si tratta di ricevere regali, a volte anche quando si tratta di vedere le facce di quelli a cui i regali li ho fatti, unica eccezione per i bambini, perché è chiaro che per i bambini le feste sono qualcosa di magico. Il momento peggiore, ci ho anche scritto su una canzone, poi cantata da Andrea Mirò, Quello che gli occhi, quando mia moglie, immancabilmente, arriva da me poco prima di cena, parlo ovviamente della cena della vigilia, che porta via buona parte della giornata in preparativi elaborati, sia dal punto di vista della cucina che della scenografia, quando appunto arriva mia moglie e, immancabilmente, poco prima di cena mi chiede di scrivere i biglietti di auguri, spesso aggiungendo “sei uno scrittore, quanto ti ci vuole”, lasciandomi in uno stato di scoramento senza pari, incapace di dire anche uno straccio di frase originale, qualcosa che suono meno desolante del “con affetto e simpatia lascio qui la firma mia” con il quale i miei compagni di classe meno originali erano soliti griffare i diari degli altri compagni, unici momenti della mia vita nei quali soffro della cosiddetta sindrome della pagina bianca. Un Grinch frustrato, in quei momenti, un Grinch e basta per tutto il resto delle feste, io a fingere di dormire dopo il pranzo di Natale, del resto con quello che ho mangiato un sonnellino postprandiale ci può pure stare, pur di non prendere parte alle estenuanti partite di tombola o di sette e mezzo, per non dire di quelle serali a Taboo o Scarabeo, anche lì destinato a ricoprire il ruolo di predestinato alla vittoria solo perché nella vita campo scrivendo, dopo uno dice che rimpiange di non aver fatto le professionali. Sulla carta, da bravo Grinch, coerente, sempre che la coerenza sia in alcun caso qualcosa di cui far vanto, non apprezzo particolarmente neanche i dolci di Natale, assai più appassionato di gelati che di panettoni e pandori, uniche eccezioni quei torroni, dalle mie parti c’è il Giantorrone, che in realtà torroni non sono, quanto piuttosto lunghe stecche di gelato alla gianduia arricchite di nocciole intere. Ecco, sì, la frutta secca la apprezzo, ma quella c’è anche in periodo non natalizio.
E dire che mangiare è una delle mie passioni, a differenza delle altre, passione decisamente decifrabile a occhio nudo, specie se sono di profilo. Sta che però sono uno che scrive, e sono uno che scrive in maniera non esattamente canonica, credo che nessuno di voi che state leggendo, non fosse per l’aiutino da casa del titolo e della foto di corredo, avrebbe mai capito esattamente di cosa io abbia parlato fin qui, e probabilmente molti di voi ancora non l’hanno capito, evito come la peste di dire nella prima pagina l’argomento del mio scrivere, come evito le parole chiave, gioia dei SEO, oltre che tutta quella serie di regolette, le cinque W del giornalismo americano, io non sono giornalista e non sono americano, figuriamoci, insomma, ci siamo capiti, sta che però, quindi, sono uno che scrive, e sono uno che scrive in maniera non esattamente canonica, per cui capita, vedi tu la vita, che mi si inviti a eventi nei quali si raccontano storie, quelle sì in maniera canonica, affinché queste storia vengano metabolizzate e poi risputate secondo le modalità di chi le ha sentite raccontare, dando al tutto una mano di vernice, a volte anche di smalto. Così succede che il Grinch, cioè io, venga invitato a farsi un giro in una sorta di Villaggio di Natale organizzato da Pradivio PR, in quel di Milano, presso la Sala Tencitt della storica Cantina Piemontese di Via Laghetto 2, a due passi dal Duomo e dall’Università Statale degli Studi di Milano. Un posto incredibile, nel seminterrato, una volta a botte di mattoni a vista, tipico delle cantine dove si lasciano invecchiare vini e liquori. Divenuto negli anni Sessanta il primo American Lounge Bar di Milano, frequentato da jazzisti e intellettuali, un club che ha ospitato anche i grandi della canzone italiana, la cosiddetta scena milanese, da Jannacci a Gaber, gente che era solita frequentare i locali dove si faceva jazz nella zona, questo e il vicino Club Santa Tecla, il locale se la passò male negli anni Settanta, dove durante i moti studenteschi per ben due volte venen dato alle fiamme con lanci di molotov dai contestatori. Poi, dopo vicissitudini molto italiane, come quando negli anni Ottanta il tutto è stato controsoffittato per creare un ambiente moderno in grado di ospitare una galleria d’arte, qualcosa che immagino avrebbe fatto sanguinare gli occhi a chiunque come alla Cate Dunlap di Gen V, spin off di The Boys, scelleratezza cui ha fatto seguito un buon ventennio, forse anche più, di chiusura, finché non sono arrivati Carlo e Anna Bodini che hanno ripristinato, arricchendolo di tecnologia domotica, il tutto, inaugurando poi nel 2014 la Cantina Piemontese, ora aperta al pubblico tutti i giorni e che la domenica sera, come un tempo, si trasforma in jazz club, con la direzione artistica del trombettista Pepe Ragonese. La Sala del Tencitt, ospitata appunto nell’ex carbonaia della Ca’ del Tencitt, ha a sua volta una storia molto suggestiva. Un tempo adibita a deposito del carbone della Fabbrica del Duomo, la via Laghetto prende il nome appunto da un laghetto che si trovava lì di fronte, che fungeva da via fluviale per il trasporto di carbone e marmo destinato alla costruzione della cattedrale di Milano. La parola “Tencitt”, appunto, prende il nome dal vocabolo dialettale “Tencio”, che significa sporco (oggi direbbero voncio, Dio mi perdoni per aver dato spazio a del milanesismo) declinato in forma diminutiva, piccolo e sporco, tencitt. Quando arrivò nel capoluogo la peste, quella cantata da Manzoni nei Promessi sposi, i carbonai, coperti da sporco e fuligine, si salvarono, proprio perché quello strato di sporco fece loro da protezione antisettica. Per ringraziare la Madonna, cui il Duomo cui stavano lavorando sarebbe stato dedicato, i carbonai realizzarono l’affresco fino a agosto scorso visibile sulla facciata del palazzo dove oggi sorge la Cantina Piemontese, oggi esposto all’interno del Policlinico, per tutelarne la salvaguardia, la Madonna dei Tencitt. Qui, in un novembrino pomeriggio milanese, si è tenuta questa degustazione e presentazioni di dolci natalizi, e non solo dolci. Qualcosa che, il Grinch in fondo è una favola a lieto fine, credo, confesso di non aver visto il film con Jim Carrey e di essermi sempre disinteressato a questo personaggio, perché se uno è Grinch davvero non può certo provare simpatia per un personaggio che al Natale è comunque collaterale, parlo di festività, non vorrei che qualcuno pensasse a me come a un osteggiatore delle figure dell’immaginario cattolico, sono figlio di un diacono, sposato in chiesa e con un passato neanche troppo remoto da catechista, non è che uno diventa moralizzatore della scena musicale così, per caso. Tutto quello che avete letto fin qui, tutto vero, tutto vero in quanto tutto scritto, quindi vero dentro questo testo, non pensate neanche per un secondo che quello che leggete, qualsiasi cosa che vi capiti di leggere, risponda minimamente alla verità, la scrittura è mediazione, sempre, poi che ci sia una verità tutta interna al testo, e che magari questa verità coincida con la verità fuori dal testo è una pura casualità, per altro non necessaria, non siamo mica qui a far cronaca, tutto quello che avete letto fin qui era propedeutico al mio ribaltare una condizione di partenza data per calcificata, il mio essere talmente poco incline alle feste dall’essere diventato, andando quasi contro la mia natura, anche poco incline a mangiare i dolci di Natale. Ne ho parlato per così tante battute, così tante parole, così tante righe, prima o poi questa faccenda di dover citare almeno tre situazioni prima di passare oltre andrà rivista, che il momento esatto in cui io dovessi ribaltare il tutto dicendo che mi è piaciuto mangiare un determinato panettone, o un biscotto di Natale, beh, non dovrebbe sortire altro effetto che la vostra meraviglia, sempre che così tante battute, così tante parole, così tante righe, ci risiamo, non vi abbiamo in qualche modo ubriacato, confondendovi, lasciandovi in balia di un capogiro, incapaci di orientarvi anche dentro il metaverso temporaneo di questo mio racconto.
Però è successo. Non potete che credermi, tra le lettore e scrittore funziona così, io scrivo e voi mi credete, per una sorta di patto di silenzio assenso che va avanti sin da che la letteratura esiste, non ci fosse quel patto non esisterebbero più i libri, la narrativa, la poesia, forse anche il giornalismo, sempre che qualcuno ancora creda al giornalismo. Anzi, il fatto che quasi nessuno ormai creda ai giornalisti, bistrattati un po’ come è capitato alla categoria degli insegnanti, dimostra proprio che esiste un patto tra lettore e scrittore, e che nel momento in cui quel patto venga tradito, da chi scrive come da chi legge, attenzione, muore la magia, si appassisce la rosa dentro la campana del Piccolo Principe, scegliete voi la metafora più consona al vostro immaginario. È successo che io sia andato al Villaggio di Natale organizzato da Pradivio Pr e, sarà stata l’atmosfera calorosa e antica della Cantina Piemontese, sarà stata l’esposizione dei vari manufatti di alta pasticceria che qui trovavano asilo, sarà stato, magari, mica voglio dar nulla per scontato, una certa stanchezza che mi ha abbassato le difese, l’inizio dell’anno scolastico per chi come me ha quattro figli, inizio che coincide sempre anche con un nuovo inizio lavorativo, altro che Capodanno, tutti i progetti che mi accompagneranno di qui all’estate prossima, i libri, i podcast, i lavori teatrali, Sanremo, tutto in fase di ottimizzazione, di scrittura, di ideazione, sempre sto cavolo di tre, di fatto è successo che io mi sia ritrovato a mangiare in sequenza fette di panettone artigianale e che non solo mi siano piaciute assai, ma quasi mi abbia fatto dire, non l’ho realmente detto né pensato, ma c’eravamo quasi, “dai, che manca poco e arriva Natale”. Sono poco appassionato di trame, credo di avervelo detto, ma sentire raccontare di come Emilio il Pasticcere, oggi gestito dal figlio del fondatore Nicola Goglia, classe 1985, divenuto famoso grazie al suo Roccobabà, dolce elevato al grado di icona pop della pasticceria grazie all’endorsement dello stilista Rocco Barocco, abbia trasformato un luogo altrimenti noto per questioni di cronaca nera come Casal di Principe, a Napoli, come l’Eldorado della pasticceria campana, i suoi biscotti di Natale, dai Mostaccioli ai Roccocò, passando per gli Struffoli, impreziositi nella loro ricetta tradizionale dall’utilizzo di ingredienti di alta qualità e decisamente originali, al punto da averli portati a competere alla pari coi classici dolci natalizi, la sede di Via San Donato vera e propria meta di pellegrinaggi dall’intera Campania come dal resto d’Italia. O di come la Taralleria Napoletana, sita in via San Biagio dei Librai, stia riuscendo a accendere i riflettori su un oggetto di gusto solitamente riconducibile alla Puglia, grazie a ricette originali che vedono l’utilizzo di ingredienti decisamente desueti, dodici le tipologie differenti di taralli salati, più il natalizio Panettonel al Tarallo (compendiato dal Tarallo al Panettone), dove a fianco a grani pregiati si trova un crumble di tarallo, cioccolato fondente e una selezione di tre tipi di pepe differenti. O ancora di come esista una via al Panettone che passa dalla focaccia, lo chef Tino Vettorello il suo geniale ideatore, cuoco preferito dagli attori americani, che per Natale ha cercato una via insolita al classico dolce lombardo. Chiudo citando le varietà di miele bilogico ideate da Riccardo Bertazzoli da Ferrara, col brand ReRiccio, dal classico Lingotto, miele di acacia dal gusto delicato, al Rosemary, aromatizzato da un rametto di rosmarino visibile nell’elegante confezione, passando per il Cometa, che si ottiene mettendo in infusione anice stellato intero fino al Bosco, con gemme di pino mugo. Fossi uno che si occupa di cronaca, e non di provare a portare la fantasia del lettore a correre, per stancarla, come Mario Venuti chiedeva di fare al suo amante, anche se lui parlava di anima, in Crudele, dovrei citare tutti i mastri pasticceri presenti alla Cantina Piemontese in questa novembrina serata milanese, esperti di pasticceria e di grandi lievitati, dai panettoni antispreco fatti con grani alti da Francesco Gigliotti al Panettone Gianduioso di Gruè, quest’anno affiancato anche dal Sacher, fino al Pandoro Monte Nuvola di Infermentum, specializzati in panettoni proposti in sette varianti, fino a arrivare ai grandi lievitati del maestro pasticcere Vincenzo Pennestrì, quello ripieno al gelato considerato la punta di diamante della sua produzione, ma una suggestione è una suggestione, e il vostro affezionatissimo, che poi sarei io, è rimasto suggestionato da quanto vi ha raccontato, lasciando che lo stile, certo, dominasse sulla trama, ma immagino, questa terza persona singolare sta lì anche per mettere un po’ le mani avanti, abbia in qualche modo suggestionato e incuriosito anche voi. Resta che sarà mia premura andare a approfondire come alla Cantina Piemontese trattano con sapienza e cura per le tradizioni le interiora, loro specialità, così come sarà mia premura approfondire la fornitissima carta dei vini, magari in una di quelle serate domenicali che prevede la musica jazz selezionata da Pepe Ragonese. Certo, se proprio dovessi lasciarmi andare anche io, come a suo tempo Geoff Dyer, a una mia Natura morta con custodia di sax, io intenderei il sax solo come quello martoriato sapientemente dal neosettantenne John Zorn, preferendo di massima Black No1 dei Type O Negative del compianto Pete Steele agli standard di Natale intonati da Michael Bublé, ma da oggi ho scoperto che in fondo anche le feste di Natale possono fare per me, o almeno per il mio palato. Vediamo se prossimamente mi convinceranno anche a rivalutare quelle di Pasqua.