Certi destini sono più tetri di altri, rampollano nell’apparente inesplicabilità, o direi mestizia. Perciò in tutti questi anni, mille anni - rappresi in un solo istante, scandito dalla morte, nel tempo finale, una specie di big bang tonante e austero, impresso nel cardine del momento, l’apice dell’amore sgretolato nella frazione di un secondo, un minuto, due minuti - ho attraversato l’eterna novella, non avendo contezza di averlo percorso il sentiero costellato di spuntoni, fino al monte su, il calvario, piccolo, nostro, terribilmente umano.
La salvezza contiene una fine nel tempo, aspira quiggiù ancora a un luogo. Non ancora voglio dire l’alfa e l’omega, il cerchio, l’inizio che coincide con la fine. La salvezza contiene destini che ne assumono in seno centinaia, disarticolati e secolari, o simili piuttosto al contrappasso dell’origine, alla cinta stretta sui fianchi, alle sette spade conficcate nel petto, o nel tenero costato, la lancia confitta, la ferita da cui sgorga acqua e sangue.
Siamo ai suoi piedi. Siamo ai piedi della Croce.
Lascio in consegna l’inciampo della mia giovinezza. Nella constatazione, ritrovo soltanto un breviario anticipato e insieme oscuro di quel che sarebbe stato.
La salvezza mi raggiungeva, ma avrei dovuto attraversare parecchie stagioni, fino a incontrarla nel volto di un giovane uomo, le cui fattezze avrebbero ricordato misteriosamente il Cristo crocifisso di Zeffirelli. Nello sguardo si perdeva la bontà sconfinata, sembrava spingersi in talune profondità che foravano l’iride celestiale, inoltrandosi nel segreto della comprensione purissima, la chiamiamo pietà, ma è prossima a tutte le misericordie sfuggite nella beatitudine di un rintocco mondano, perché congiunto al mondo, a una sillabazione seppur maldestra del vero.
La salvezza raggiungeva la donna adulta, credevo provata già con il fuoco che enuncia Siracide, libro secondo, versetti quattro sei. Ma no, non era arrivato il momento, l’ultimo gesto, il gemito, l’invocazione.
La salvezza era un uomo molto giovane.
Era l’amore corrisposto. Era l’amore assoluto, ricambiato stoltamente nel parossismo di un sì per sempre.
Dovrei procedere con calma, raccontarvi bene, l’ultimo giorno e il profumo di fiori, che emanava dalle navate della chiesa di San Biagio. Non era l’incenso.
Dovrei procedere con calma e riferirvi di alcuni versi di Dino Campana che l’uomo con il volto del Cristo di Zeffirelli aveva imparato a memoria e mi aveva dedicato.
Dovrei procedere con calma e raccontarvi l’ultimo giorno.
L’ultimo giorno ricapitola il significato tormentato della salvezza, di come discenda da volontà non ritrattabili. L’amore non disperde il dolore, lo raccoglie a sé, il dolore inumano, bianco come il ciglio, il giglio più perfetto.
Ed era tutto per me, lo scrigno sollevato rivelava il contenuto, solo per me, nell’istante in cui appresi che l’uomo dal volto del Cristo di Zeffirelli, per le cose del mondo, era morto.
Il dolore è la conseguenza decisiva dell’amore. Potrei restare su questa pagina e scrivere e riscrivere le parole avvinte, l’una all’altra, riconducibili alle due: amore e dolore.
Ero la stessa donna che una manciata di mesi prima fissava stordita la vita estinguersi nella luce limacciosa di un pomeriggio romano, dietro i vetri di una camera d’albergo. La scrittrice, colei che scrive e non ha mai guadagnato il fulcro.
Il fulcro è l’amore.
Lo sguardo dell’uomo con il volto del Cristo assumeva la responsabilità di una malinconia conficcata in un luogo lontanissimo, noi lo chiamiamo altrove.
La salvezza pretendeva che nell’amore del giovane uomo avrei imparato a declinare forme di oppressione sconosciute, nuove forme di coercizione e contrizione. La parusia.
La salvezza si tinge nell’ocra sgargiante di un tramonto sopra la città di Roma, infilato dentro le gratelle disegnate dai cipressi, disposti a scudo sopra la città e noi la guardavamo grati e oramai estinti, sì, sfiniti, divisi e ignari nella imprevedibilità dell’ultima ora, eppure l’uno nell’altro nel per sempre mostruoso perché esatto letterale, da cui lui ha liberato le parole, le ultime, il suo: tutto è compiuto.
Nell’ultima ora, mai un amore fu così saldo.
Tutto è compiuto.