Tra i meriti di “Cinema degli eccessi. I 100 film più estremi della storia del cinema” di Andrea Guaia, da poco uscito per Eris, anche quello di averci ricondotto da Raffaele Picchio, regista “romano de Roma” che oggi “fa un lavoro di me**a” (cit.), ma che con la settima arte non crediamo abbia chiuso del tutto i conti. “Conosco Andrea – dice Raffaele –, è forse l’unico youtuber di settore che seguo con interesse. Non sono vecchio, ma quel mondo, fondamentalmente, non è il mio”.
Come ti poni, oggi, rispetto al concetto di “cinema estremo”?
Il cinema estremo c’è sempre stato, c’è e sempre ci sarà, nonostante il cambio di linguaggi. Troverà sempre una via per restare underground o per contaminarsi con un cinema più autoriale. È una linfa che scorre senza fermarsi, e più si va a fondo più si abbandona la via artistica per cose che neppure sono definibili come “cinema”. Dovesse arrivare il momento in cui non si cercherà più di infrangere un tabù, direi che possiamo chiudere tutto. Oggi, nella fattispecie, il cinema estremo è più “emerso”. Da ragazzino riuscii ad accaparrarmi una vhs copiata (male) di “Cannibal holocaust” grazie a un tizio che me la vendette sottobanco. Oggi trovare un link per guardarsi “A Serbian film” non è affatto un’impresa. Per non parlare poi di quanto estremi possono essere alcuni video amatoriali, presi dal vero, e che girano indisturbati sul web, in cui magari un tizio viene pestato a sangue o cose simili. Ma quello è un altro discorso, sebbene abbia senz’altro a che fare con l’ampia diffusione di immagini estreme…
La sala, è chiaro, non è più il luogo deputato per vedere “meglio” ciò che può scandalizzare, colpire forte…
Certo che no. Il buio della sala portava con sé una piacevole morbosità, ma oggi le multisala ospitano quasi solo blockbuster, per le produzioni estreme c’è il web o qualche festival.
Ripartiamo da te, da “Morituris” (2011), l’ultimo film italiano bloccato dal visto censura (sorte che toccò anche a “Totò che visse due volte” di Ciprì e Maresco, anno 1998).
Sì, fu fermato ben prima della legge Franceschini, quella che avrebbe finto di abolire la censura. La censura, va ammesso, fece diventare “Morituris” un piccolo caso fra i cinefili. Però ci negò una pur contenuta distribuzione in sala, cosa che era in programma. Ovviamente non fu trasmesso neppure in tv. Non ci restò quindi che il (vasto) mercato dei dvd, che si aprì in seguito. Il problema vero è che la censura ci impedì di rientrare nelle spese; fosse uscito oggi, nell’era dei social, il film avrebbe fatto molto più rumore. All’epoca non ci ca*ò neppure Il Manifesto.
Ricordiamo ai lettori più giovani le ragioni di tanto accanimento contro la tua opera prima.
La commissione trovò il film “moralmente abbietto e concettualmente sbagliato” perché metteva sullo stesso piano le ragazze stuprate e gli stupratori, “mostrando” una violenza misogina. E poi non avevano gradito il topolino come oggetto sessuale.
Oggi che opinione hai di quel film?
Sono anni che non lo vedo e in linea generale sono molto critico rispetto a ogni cosa che ho fatto. Vivo male i lavori che ho girato perché ne vedo soprattutto i difetti, ciò che non ho potuto fare meglio. “Morituris” è sempre stato un film piccolo e imperfetto, ma all’epoca dell’uscita era ciò che furiosamente desideravo. Un film che in Italia forse non c’era.
Possiamo definirlo “maledetto”?
Certamente sì, vista anche la sf**a che mi ha portato dopo (sorride, nda). Considerando che non esiste più la casa di produzione, che ho litigato con tutti quelli con cui lavorai al progetto e che a causa sua mi ritrovo ancora indebitato… Avevo 24 anni quando girai il film, ero molto entusiasta e incosciente. Però il fatto di non aver ricavato alcun utile, da quel film, ci ha messo tutti gli uni contro gli altri. Si è raccontato molto sulla produzione di “Morituris”. Ognuno è libero di dire ciò che vuole, ma la realtà è che la gente che lavorò con me cominciò a farsi i ca**i suoi abbandonando la nave. Sono scelte, nulla di strano o scandaloso, ma è andata così.
Cinque anni dopo circa arriva “The blind king”, sicuramente meno estremo di “Morituris”.
È stato un film su commissione. Marco Ristori e Luca Boni avevano finito di girare “Zombie massacre 2” e mi proposero di sfruttare il loro set per fare un film stile “The conjuring” (erano anche gli anni di “Babadook”, per capirci). Così con meno di 30mila euro, nel giro di una settimana, tirammo fuori un film che doveva essere facile da capire (ecco quegli spiegoni che ho tanto detestato) e non doveva contenere scene splatter. Un film più cupo e triste di “Morituris”, in cui va in scena un fallimento totale. Un film che ho sentito più personale col trascorrere degli anni.
Poi ci fu il tuo episodio di “Sangue misto”.
In quella circostanza fui chiamato da Davide Scovazzo. Girai a Firenze e Roma, ispirandomi a “Il coraggioso” di Gregory McDonald (libro del 1997, nda), da cui poi è stato tratto il film di Johnny Depp con Marlon Brando e Depp medesimo. Il romanzo è il racconto di questo indiano povero (che io ricontestualizzai, rimasticato, nella comunità albanese) che vendeva il suo corpo per uno snuff movie. E che con i soldi ottenuti cercava di dare un futuro ai propri figli.
Arriviamo quindi al 2020 con “The curse of the blind dead”, tua più recente fatica.
Da fan, quale sono sempre stato fin dai tempi di “Morituris”, di Armando De Ossorio, mi piaceva l’idea di recuperare il mood dei “resuscitati ciechi”. Sarebbe dovuto uscire un film diverso, in realtà, ma appena prima di iniziare a girare ci negarono il set. Ci buttammo a riscrivere tutto e saltò fuori una sorta di post-atomico. La prima del film sarebbe dovuta essere al PIFF (Portland International Film Festival), ma il Covid ci tagliò le gambe. Lo girammo ad Alzano Lombardo, uno degli epicentri dell’epidemia. Lasciammo il set agli inizi di settembre e via via tutto crollò, fino al lockdown dell’anno successivo.
Al momento sei fermo?
Ahimè sì. Perché il cinema è ancora l’unica cosa che mi sento di fare. Che amo davvero fare. Tuttavia va preso atto di alcune realtà. A partire dalla delusione di non aver ottenuto granché rispetto a ciò che ho investito. E poi questi sono anni di enormi mutazioni, ho sempre avuto difficoltà a fare mie determinate logiche. Sogno ogni giorno di tornare su un set, ma quello è un mondo che spegne gli entusiasmi. Perché se non hai tanti soldi il cinema vero non lo fai. Fare cinema è un lavoro per ricchi. Mettere in moto la macchina che sostiene un film è uno sforzo produttivo per cui la sola passione non è sufficiente. Ci vogliono soldi che, se ti muovi a livello indipendente, non sono affatto garantiti. Non c’è più un mercato. L’unica è che tu faccia già parte di quelle produzioni che fanno leva sul tax-credit e continuano a girare anche se sono in perdita. E poi ci sono le persone. Pensavo di contare su persone che poi sono scomparse nel nulla. Dal mio cinema, alla fin fine, non ho ricavato un centesimo.