Come ogni sporca guerra che si rispetti, in parallelo al fronte in Ucraina si combatte una battaglia in cui le armi sono le idee e le immagini: il conflitto fra opposte propagande. Da una parte l’Occidente, dall’altra la Russia. Ciascuna delle due giustifica l’operato dei rispettivi governi costruendo una propria narrazione degli avvenimenti, delle loro cause e delle ragioni politiche che li hanno generati. È sempre stato così, perché l’uomo ha bisogno di credere in una versione dei fatti che renda accettabile, se non addirittura onorevole, morire immolati sul campo, centrati da una bomba o assassinati dal nemico. Sull’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022, dopo otto anni di scontro interno fra Kiev e le regioni russofile del Donbass, qui da noi in Italia si è potuto vedere di tanto in tanto, a spot, secondo l’agenda filtrata dai nostri media, al massimo qualche scampolo di talk russo, oltre ovviamente a resoconti dei discorsi di Vladimir Putin e a spezzoni video tratti da qualche profilo social di questo o di quel personaggio (celebri, ad esempio, quelli dell’ex comandante della Brigata Wagner, Yevgeny Prigozhin). Fisiologico sia così: nella logica di contrapposizione, il materiale proveniente dall’altro lato della barricata è utilizzato, con l’abituale taglia e cuci, per sostenere le proprie tesi. Lo fanno loro, lo facciamo noi.
Non era mai accaduto, però, che si potesse vedere integralmente un’opera propagandistica commissionata e finanziata dal governo di Mosca per supportare l’elemento più ideologico dell’invasione: la de-nazificazione dell’Ucraina. “Il testimone” (in originale, “Svidetel”) è il film russo che nel nostro Paese in questi mesi ha avuto vita travagliata, con i Comuni che hanno sistematicamente negato l’ospitalità in sale di proprietà pubblica con l’esplicita motivazione che non si dà spazio alla propaganda avversaria. Pare che esista una chiara indicazione in questo senso da parte del Ministero dell’Interno. Diffuso su iniziativa dei giornalisti freelance Vincenzo Lorusso (Comitato Donbass Italia) e Andrea Lucidi, entrambi apertamente – e legittimamente – schierati, finora è stato comunque proiettato cinquantacinque volte, per lo più in location di fortuna. Chi scrive l’ha guardato, ad esempio, nella sede del sindacato Cub di Vicenza, dopo che anche dei privati, per l’esattezza i Missionari Saveriani del posto, per evitare l’accusa di putinismo avevano ritirato la disponibilità a tre giorni dalla serata, fissata nella loro sede un mese prima.
La pellicola, diretta da David Dadunashvili su soggetto scritto da Sergej Volkov, dura 2 ore e 8 minuti. Il protagonista, ispirato palesemente all’Adrien Brody de “Il Pianista” di Roman Polanski, è un violinista belga, Daniel Cohen. Benché non si faccia mai riferimento alla sua identità d’origine, il solo nome rivela che si tratta di un ebreo. Arrivato secondo in un festival internazionale in Russia nonostante la sua indiscussa bravura, viene invitato a suonare in una festa privata a Kiev da un ricco oligarca ucraino, che gli fa dono di un Nicola Amati, violino che vale ben 2 milioni di dollari che lo accompagnerà nella disavventura che vivrà di lì a poche ore. Quella sera stessa, infatti, l’artista si ritroverà nel bel mezzo dei bombardamenti che annunciano l’inizio della guerra, il 24 febbraio 2022. Mentre il riccone scappa in Israele, lui e la sua manager Brigitte vivono l’inferno di una capitale che piomba immediatamente nel caos, con distribuzione di armi ai civili e bande di armati in divisa che spadroneggiano e saccheggiano. La manager, che rivendica di essere “europea” e perciò teoricamente alleata, finisce stuprata e uccisa. Cohen, invece, riesce a salire su un treno verso Leopoli, nell’ovest, per unirsi ai profughi e raggiungere il confine. Ma viene intercettato da un altro gruppo in uniforme, che di notte fa scendere tutti dai vagoni in qualche disperso punto della campagna, per lasciare a terra i sospetti e taglieggiare una madre che paga per non far arruolare a forza il figlio ancora ragazzino.
Poi, individuato un capannello attorno a un fuoco, stermina i presenti senza pietà. Tutti tranne il nostro violinista, che se la cava fuggendo, per cadere però nelle mani del vero protagonista dell’opera, che non è un individuo ma è collettivo: il Battaglione Azov. La famigerata formazione paramilitare di neonazisti ha un distaccamento in un villaggio le cui donne sono trattate da schiave sessuali, dato che i mariti se la sono svignata all’estero (rifacendosi, gli egoisti, una vita in Europa, come racconta una di loro, con cui Cohen fa conoscenza familiarizzando con il figlio, Misha, che ha la stessa età e lo stesso giocattolo, un orsacchiotto, del suo bambino). Mentre Cohen lungo tutta la vicenda subisce quasi sempre passivamente gli eventi, a prendersi la scena è il comandante del raggruppamento azoviano, il colonnello Panchak. Già comparso all’inizio come assistente dell’oligarca appassionato di musica, adesso veste la mimetica con la runa sulla spalla, dipinto come uno “psicopatico” (viene definito proprio così), ossia come il classico nazista invasato, che fra citazioni e santini di Hitler, gode nell’umiliare l’ostaggio, minacciando di accopparlo se non avesse suonato qualcosa di gradito ai suoi soldati.
Il non-happy end è composto di due parti. Nella prima, avviene la strage dei civili del paesino, assiepati con l’inganno dagli Azov fuggitivi nella stazione ferroviaria locale. Si evince chiaramente che i missili che seminano la distruzione vengono premeditatamente lanciati dagli stessi ucraini per usare i morti come arma d’accusa verso i russi, che stanno per arrivare. Cohen sopravvive. La seconda parte vede finalmente il musicista tornare in Belgio, dove viene chiamato come testimone in una trasmissione televisiva il cui assunto è precostituito: quel crimine di guerra è colpa della Russia. Il volto scioccato, stranito, stravolto di Cohen, catapultato in uno studio dove lo sovrastano inquietanti schermi che rimandano al Grande Fratello orwelliano, testimonia invece che la vittima, in Occidente, è la verità. Quella che al contrario, per gli autori del film, si può letteralmente leggere nell’ultimo fotogramma: un testo bianco su campo nero in cui si specifica che Kramatorsk, Bucha, Mariupol e gli altri massacri compiuti in questi due anni sono stati “commessi dal regime di Kiev” per “denigrare i russi”. Assieme ai simboli del governo e del ministero della Cultura con cui si apre il film, è il sigillo del suo intento scopertamente “didattico”.
Cerchiamo di tirare le somme. Non c’è bisogno di essere dei critici cinematografici per concludere che “Il testimone” non è quel che si dice un capolavoro. Potremmo dire che corrisponde alla media di tanti lungometraggi più da tv che da cinema, senza particolari pretese artistiche. La trama segue lo scontato plot dell’odissea di un innocente in uno scenario bellico, anche se parliamo non di un uomo qualunque ma di chi, essendo artista e per giunta di vaglia, ha una sensibilità in più. Ci aspetteremmo che l’attore, Karen Badalov, che pure ha un volto non privo di espressività, ci ammaliasse come il succitato Brody di Polanski. Invece la sua interpretazione è abbastanza piatta, come piatte, e soprattutto prevedibili nella loro gratuita efferatezza, sono le scene dello scantinato delle torture degli Azov, del ragazzo freddato perché disertore (“voglio tornare dalla mamma”) e, su tutto, l’esibizione caricaturale del colonnello hitleriano. E qui, quanto meno, un po’ di tensione si avverte. Ma di spunti originali, non c’è traccia. Del resto lo stesso violino, come strumento, non rappresenta chissà quale colpo di genio: richiama quelli che si udivano nei campi di concentramento delle SS. Il soldato dell’esercito russo che appare alla fine per soccorrere Cohen, scatta con gesto diremmo amorevole, mentre i maschi ucraini o sono soldataglia predona e nostalgica del Terzo Reich (ma sono tutti nazisti, in Ucraina? suvvia…), o più semplicemente non esistono, così da farli sembrare codardi (eccezion fatta per il prete del villaggio). Perfino l’orsacchiotto del bimbo Misha, falcidiato nel bombardamento finale, non può non far pensare all’animale totem della nazione russa.
In sintesi, quel che abbiamo visto è un movie didascalico, che ci fornisce sì, per citare Lucidi, “una prospettiva diversa” sulla guerra in corso; ma una prospettiva che si riduce a una visione di parte, con stereotipi e semplificazioni evidenti. Talmente evidenti, e addirittura pacchiane, nella lezioncina in chiusura in cui la versione occidentale è rovesciata per sostituirle quella russa, da creare un “effetto pravda” che toglie al tutto credibilità. Dividere la realtà in bianco e nero, buoni tutti da una parte contro cattivi tutti dall’altra, è sempre indice di manipolazione. Chiunque siano i manipolatori: i russi che parlano ipocritamente di “operazione speciale”, o certi nostri agitprop senza pudore nel tentare di far passare l’Azov per un circolo di lettori di Kant. Se un pregio dovessimo trovarlo, in questo proibitissimo filmetto, è questo: a differenza di altri a cui siamo abituati noi, film magari tecnicamente anche migliori ma che spacciano propaganda un tanto al chilo (“La vita è bella”, ma pure lo stesso “Oppenheimer”), almeno “Il testimone” non occulta la sua faziosità. Te la sbatte in faccia. A suo modo, è più onesto. E rende perciò la censura dei vari sindaci, ringhiosamente invocata dai comitati filo-ucraini, non solo illegittima ma soprattutto offensiva. Per l’intelligenza media, s’intende.