Fabrizio Roncone, cronista politico del Corriere della Sera, da qualche tempo è anche scrittore di romanzi che si definiscono noir. L’unica cosa memorabile di questi libri, per quanto ci riguarda, è la propaganda iperbolica che li promuove, fatta su paginoni dello stesso giornale per cui lavora e spinta dal celebre collega – critico letterario del Corsera – Antonio D’Orrico, che qualche anno fa arrivò a paragonare il romanzo Peccati immortali (scritto da Roncone insieme a Aldo Cazzullo, altro collega del Corsera) nientemeno che a I tre moschettieri di Alexandre Dumas, solo perché basato sulla ricerca di un telefonino scomparso e pericolosamente prezioso, come i famosi diamanti della regina. Nelle pagine in sezione cultura, D’Orrico concludeva così: “Dopo Peccati immortali (un libro che asfalterà le classifiche di vendita), il giornalismo nazionale rischia di perdere due protagonisti. D’ora in poi Cazzullo & Roncone (onoriamoli con la ‘e’ commerciale, se lo meritano) saranno una coppia fissa letteraria. Categoria? La più chic (ma anche pratique): quella del bestseller di qualità”.
Oggi, dopo questi trionfalismi fatti in casa – le cosiddette recensioni aziendali, con cui i giornalisti promuovono i libri dei colleghi della stessa testata –, leggiamo nel paginone pubblicitario dell’inserto la Lettura che Fabrizio Roncone ha pubblicato un nuovo noir in solitaria, con l’editore Marsilio (lo stesso che alimenta la serie dei gialli di Villa Borghese scritti da Walter Veltroni, fra i libri peggiori degli ultimi anni). Nella cornice “ i maestri del thriller”, Antonio D’Orrico declama: "L’anima di Fabrizio Roncone si chiama Marco Paraldi, un ex giornalista che ha cambiato mestiere per aprire la Vineria Mezzolitro a Campo de’ Fiori a Roma, che è l’altra protagonista di Non farmi male: un noir bellissimo e struggente". Accanto alla copertina, un Roncone volitivo si regge il mento, come è d’uso fra chi si ritiene scrittore. A questo punto, incuriositi, ci occupiamo del libro. Questo è l’inizio:
Murena: «Bastano cinque minuti. Entriamo nell’ufficio postale, prendiamo le pensioni e usciamo. Domande?»
Sorcanera: «No. I vecchi me stanno pure sul cazzo.»
Mozzicone, l’aria professionale: «Cercate di essere puntuali. Io non vi aspetto.»
Una batteria di rapinatori all’antica. Uno che decide, uno che spara – se serve, ma non deve servire –, uno che guida.
Già questo attacco ricorda le sceneggiature di certi film nostrani di serie C, tipo er Monnezza con Bombolo e Cannavale, appartenenti a un mondo ormai andato. I nomignoli dei personaggi sembrano scopiazzati da Romanzo Criminale di Giancarlo De Cataldo (come Dandi, Scrocchiazeppi, Trentadenari, il Freddo, il Nero); l’incedere delle battute è scarno e inefficace, perché suona meccanico e artefatto, e non conduce il lettore. Dopo qualche paragrafo di spiegazioni stringate (chi è uno, chi è l’altro, cos’ha fatto l’uno, cos’ha fatto l’altro), di punto in bianco il narratore si rivolge direttamente al lettore:
Adesso state a sentire.
È arrivato il giorno della rapina.
L’ufficio postale è quello di via Tommaso da Celano, all’angolo con via Latina.
Ecco, questo è il vezzo di certi scrittori, che a Roncone evidentemente piace: una frase e accapo, una frase e accapo, una frase e accapo. Queste spezzature ingiustificate e irritanti si trovano anche dopo, ma ora restiamo sull’evolversi della rapina. La piega che prende diventa subito farsa:
Il piano è piuttosto semplice. Murena va allo sportello più vicino all’ingresso e dice la frase di rito: «Questa è una rapina.» Sorcanera resta sulla porta e tiene tutti sotto tiro. Solo che, mentre sta per tirare fuori la sua Glock 19, accadono due cose.
Sente una fitta terribile al fianco sinistro. E, contemporaneamente, una signora con il bastone e la dentiera storta gli si appende al braccio. «Bel giovane… mi aiuta a prendere il numeretto?»
Un attacco di colite.
E una rompicoglioni.
Come vedete, qui la commedia all’italiana sbraca, e con queste prime pagine l’impressione è pessima. Non dovrebbe essere un romanzo noir scritto da un “maestro del thriller”? Il risvolto parla di “una Roma invisibile in cui il male è trasversale e il bene solo apparente, popolata da broker spregiudicati e ministri corrotti, rapinatori spietati e transessuali romantici, feroci usurai, ex sfortunati attori porno e agenti segreti che bevono champagne”. Bene, intanto raccomandiamo a chi ha scritto il risvolto di metterci più cura, perché le parole devono stare nella sequenza giusta: se dici ex sfortunati attori porno fai pensare ad attori porno che sono fortunati (essendo ex-sfortunati); ma probabilmente intendevi dire “sfortunati ex attori porno”, per restare nel filone noir. Quindi, quale delle due? Ma ora passiamo al secondo capitolo, che parte subito con il vezzo “frase accapo - frase accapo - frase accapo”:
Prendere ordini a cinquant’anni.
Inaccettabile.
La contessa Ludovica Maesano vedova Castaldi è stata efferata: tutti vestiti di bianco.
Party total white.
Patetici.
Ma possono andare a farsi fottere.
Loro. E Capalbio.
Tornarci si è rivelata una grandiosa cazzata.
Forse questo stile può sembrare figo a chi lo usa, ma risulta fastidioso per chi legge, perché denota una pretesa di estetismo che non riesce a dimostrare nulla, e nemmeno a creare un effetto. È puro artificio, scoperto e meccanico. E proseguiamo con un altro problema, non meno grave: il branding. Citare marche, per risparmiarsi la fatica di descrivere qualcosa: una scorciatoia che vorrebbe essere furba ma è solo patetica, perché già venne sdoganata in modo massiccio da Federico Moccia, che citava in modo selvaggio telefonini, abiti, auto di lusso (un vero product placement), insomma tutto ciò che poteva eccitare ragazzine e ragazzini che volevano comprare quello che vedevano nel libro. Oggi questo espediente non è che la stanca ripetizione di un cliché che ha fatto il suo tempo, come è evidente nel testo:
Infila una camicia bianca Brooks Brothers, dalla sacca prende un pantalone di tela. Mentre inizia ad allacciarsi le Adidas Tobacco, immagina la rottura di palle del solito curioso che gli chiederà: «Meravigliose, dove sei riuscito a trovarle?» La sua risposta sarà: «Ne ho dodici paia. Esattamente dodici. E tutte dello stesso color tortora.»
Poi: troviamo anche il vizio di certi autori di inserire personaggi che richiamano la realtà, o perché li si conosce e li si detesta, o per caratterizzare un ambiente, usando ancora dei cliché (“perfettino”, “abbronzato come un bagnino” ecc.):
Poi si volta e vede, seduto davanti a un Campari spritz, un giornalista di Mediaset tutto perfettino, abbronzato come un bagnino, con la sua polo Ralph Lauren azzurra a mezze maniche e i Ray-Ban Wayfarer d’ordinanza.
Ricorda di aver incontrato sua moglie almeno in un paio di occasioni all’Hotel d’Inghilterra, a Roma. Una pugliese con occhi normanni, divertente, addosso una patina di sesso tutto bello caldo. «Se tradisco una volta, è un mio errore. Se tradisco due volte, è un errore di mio marito.»
Giornalista di Mediaset abbronzatissimo e cornificato dalla moglie: non sappiamo se è una vendetta, e non ci interessa saperlo. Ora passiamo al terzo capitolo, dove viene servita la classica filosofia da bar, che, essendo facilmente reperibile nei bar, diventa superflua da leggere in un libro che costa 16 euro:
Paraldi ricambiava i sorrisi ma annusando il pericolo, perché conosce la regola: se incontri una donna piacente prona sui quaranta che sta da sola, interrogati sempre sulle ragioni della sua solitudine.
Una massima molto popolare, come sappiamo, che si può avere anche gratis. Ma a questo punto dobbiamo concludere, non potendo dilungarci. Vediamo poco più avanti il protagonista che rientra dalla festa a Capalbio:
Dietro il curvone, spuntano invece quattro frecce lampeggianti.
Una Porsche Cayenne.
E un tizio alto e asciutto, vestito di bianco.
Paraldi rallenta.
Ecco, qui possiamo fare una raccomandazione: se scrivete un romanzo o un racconto, evitate l’espressione alto e asciutto. Sarebbe come dire “il tempo vola” o “fresco come una rosa”, e un editor avveduto ve la toglierebbe senza appello.