"Pensavo di crepare a trent’anni. Sono arrivato a sessantuno ed è un’inculata gigantesca. Un pacco atomico". Con questo spirito Gipi – al secolo Gianni Pacinotti – ci racconta il suo primo romanzo Zaky e gli altri (edito da La Nave di Teseo), che ha la caratteristica non da poco, per un fumettista, di non avere disegni. Ed è rimasto nascosto per diciotto anni: “Mi faceva paura quel passo. Sono uno di provincia e con la terza media. Pensavo: ma chi sono io per scrivere un romanzo?”. Poi la vergogna: “Temevo che mia madre lo leggesse e pensasse: dentro mio figlio c’è un mostro”. Il libro è uscito adesso, in piena crisi dell’identità maschile. E Gipi non la schiva, ci si butta dentro a capofitto: “La storia è nata in un periodo in cui a me non si drizzava più il pisello. Sono finito all’inferno dell’uomo. Non immaginavo fosse così orribile. La mia identità si reggeva tutta su quel processo biologico. Quando è crollato, mi ha scioccato”. Zaky, il protagonista, è un mostro ma serve per raccontare la verità: “Doveva essere peggio di me. Più spietato, più cattivo, più superficiale. Perché l’effetto della mancanza si sentisse di più”. Nessuna autocensura, anzi. “Ho spinto sul linguaggio. Non c’era voglia di provocare. È che quei personaggi parlano così”. E se il libro farà discutere sui social, che non ha più da anni, pazienza: “Se un cane abbaia per dirmi che non dovrei scrivere, lo sento, ma non lo capisco. È solo un cane che abbaia”. E anche sul passato “politico” sembra averci messo una pietra sopra: “Credevo che la violenza verbale fosse roba da fasci, invece la sinistra mi ha fatto più male. Ora ho abbracciato la solitudine. Non voglio essere opportuno, voglio essere libero”.

Gipi, parto dalla classica domanda d’apertura, ma tocca farla: perché questa storia è rimasta così tanto tempo nel cassetto?
I motivi sono più d’uno. Il primo è che sono un fumettista. Non solo, sono un fumettista di provincia. A me sono sempre piaciuti i libri ma, te lo dico sinceramente, quando me lo rileggevo, alcune parti mi sembravano buone solo che poi mi dicevo: “Ho letto quattro libri in croce in tutta la mia vita, ho la terza media modificata, sono un ignorante”. E mi faceva davvero paura l’idea di quel passo lì. Mentre invece a disegnare sono bravo. Può non piacere lo stile, ci mancherebbe, ma disegno da quando ho quattro anni. Insomma, era un passo per il quale sentivo di non aver fatto abbastanza fatica.
Non sempre gli scrittori, come gli artisti in generale, hanno avuto bisogno dello studio o delle accademie per realizzare anche capolavori.
Ma io su questo sono all’antica. Tipo nei fumetti, prima di avere il coraggio di decostruire le forme, di fare anatomie sghembe, ho fatto tutto il percorso classico. È proprio da provinciale pisano, novecentesco, come ti dicevo. Prima la devi saper fare bene, poi puoi anche arrivare alla sintesi, capito? E sulla scrittura, ti dico la verità, a me viene naturale. L’emozione che, magari, a volte riuscivo a provocare era perché i disegni aprivano delle crepe nel cuore del lettore, dove le parole aggiungevano il loro effetto. E ho sempre pensato che le parole da sole, le mie, non avessero abbastanza forza. Questo è stato il primo motivo.
E il secondo motivo?
Molto più semplice: mia madre era ancora viva. E mi vergognavo. Temevo che potesse leggere il libro e farsi un’idea sbagliata di me. Anche perché il protagonista, Zaki, è un mostro. Io non sono così, anzi nella vita reale sono un super tenerone. Però vai a sapere, magari quella diceva: “Oh, dentro mio figlio c’è un mostro, guarda che ha scritto!”. E io non volevo che provasse imbarazzo. Poi, certo, è chiaro che qualcosa di autobiografico c’è sempre, ma non è per forza letterale. Il romanzo è nato in un momento di passione freschissima e travolgente con una ragazza francese. Scrivevo mentre vivevo tutto in diretta. E da lì sono partite le visioni, cioè vere e proprie visioni dove immaginavo cosa avrebbe potuto dire lei, cosa avrebbe pensato, cosa si sarebbe detta con le sue amiche. Perché c’era questa intimità a cui non avevo accesso, un trasporto che non mi sarebbe mai stato mostrato. Ed era straziante. C’è molta autobiografia nella mia incapacità di ascoltarla davvero, in quel periodo. Lei mi diceva: “Ma guarda che ci sto bene con te”. E lo ha dimostrato in cento milioni di modi, anche quando la storia è finita. Ma io non riuscivo a crederle.
Anche perché il tutto ruota intorno al problema che più spaventa gli uomini, secondo soltanto alla morte.
Eh sì, la storia è nata in un periodo in cui a me non si drizzava più il pisello. E sono finito all’inferno dell’uomo, che non credevo esistesse, non immaginavo fosse così orribile e, la sorpresa più grossa, è stata scoprire come l’integrità della mia identità si reggesse tutta su questo processo biologico. Quando è venuto a mancare, a causa di uno stupido mix di psicologia e fisiologia, in un momento di innamoramento travolgente, alla fine mi ha scioccato. Infatti, la profondità dell’abisso dove sono caduto mi ha cambiato per sempre. Già ero timido, poi è una paura che mi è rimasta anche se le cose si sono risolte.

Il romanzo è stato scritto tutto all’epoca dei fatti o ha conosciuto più fasi e revisioni?
Ho iniziato il libro e ne ho scritta la quasi totalità in quel periodo. Poi l’ho riscritto, tagliato, integrato. Ma il protagonista, i personaggi e la psicosi che anima tutta la storia è stata riportata quando la stavo vivendo in diretta. Ed ero talmente immerso in quella incapacità di comprendere da arrivare a delle gelosie immotivate. Perché ero convinto che, prima o poi, lei avrebbe scelto qualcun altro al mio posto solo perché in grado di soddisfarla. Da lì sono partite delle vere e proprie visioni dove immaginavo una intimità alla quale non avevo accesso. È stato straziante. Soprattutto perché non riuscivo ad ascoltarla quando mi diceva: “Non ti preoccupare, io sto bene anche così”. Lei era innamoratissima, me l’ha dimostrato in milioni di modi, anche quando la storia è poi finita.
Tolto l’aspetto sessuale all'uomo, rispetto alle donne, sembra non trovare un senso di esistere?
Puoi togliere tranquillamente il “sembra”. Io ho due sorelle più grandi, che hanno fatto tutte le lotte femministe, e loro stesse, quando in rarissime volte ho confidato loro questa cosa, mi dicevano: “Ma che te frega? Aspetta e passerà”. Era tutta una cosa mia, una mia fissa. Ci arrivavo a capirlo, solo che gli effetti sulla mia psiche non cambiavano. Erano tutti effetti indipendenti dalla cultura e dalla volontà. E quindi avevo bisogno di scriverlo per buttarlo fuori. In fondo sono sempre uno che racconta delle storie. Poi ho fatto degli accorgimenti. Il personaggio non potevo essere io, doveva essere uno che avesse ancora più facilità di me nell’approccio con le donne, molto più spietato, cattivo, egoista, superficiale, perché l’effetto della mancanza sarebbe stato ancora più forte.
Il tuo romanzo arriva oggi in un momento in cui l’identità maschile è in forte discussione. Ti immagini che possa far discutere?
Sì, un po’ ho paura. Paura dell’idea di far discutere nell’epoca dei social. Se tu mi dicessi che il mio libro non ti piace, non sarebbe un problema stare a discuterne. Ma sulle piattaforme arriva Paperino37 e con quel tipo di persone ho delle difficoltà. Non ho paura neanche degli attacchi alla mascolinità, con i quali non sono per niente d’accordo, perché penso che questa forma di aggressione non sia distruttiva solo per i maschi, ma per la società intera. Credo che i maschi adolescenti non meritino d’essere messi alla gogna solo per essere nati con una coppia di cromosomi invece di un’altra. Così come la narrazione sugli uomini, tutti potenziali stupratori, per me è assolutamente delirante. In questo senso ho dei timori. Ho cominciato a scriverlo nel 2007 e già mi sembrava un tema tosto. Ma non mi sono limitato, ho spinto sul linguaggio, anche perché non c’era neanche l’ombra della "polizia morale" sul linguaggio delle opere di finzione. Per questo, non c’è nessuna voglia di provocazione, ma perché quei personaggi dovevano parlare proprio così.
Dopo aver visto la luce, quali sono state le prime reazioni?
Già prima dell’uscita ho avuto dei segnali positivi. Il primo, durante una diretta con Dario Moccia, dove si parlava di fumetti, ma lui era stato a casa mia e aveva visto quell’oggetto che non avevo ancora fatto uscire, quel libro. E mi ha chiesto di parlargliene. L’ho fatto e, finita la diretta, mi sono arrivate due mail da ragazzi molto giovani che mi hanno spiegato che avrebbero voluto leggerlo. E io, che sono fatto così, e anche per questo non sarò mai ricco, gli ho spedito il Pdf. E le lettere che mi hanno scritto, dopo averlo letto, non me le scorderò mai. Sembrava che avessero aspettato altro tutta la vita se non un altro maschio con quel problema che gliene parlava in quel modo. Non ho ansie pedagogiche, però sono un essere umano. E vedere dei ragazzini che hanno avuto un sollievo mi ha fatto sentire bene.

Diciamo che, anche se ci fossero polemiche, non avendo i social non ti arriverebbero. Non come nel 2021 quando pubblicasti Finalmente un caso semplice, o anche con la graphic novel successiva che si rifaceva al caso precedente. Come si vive senza social?
La mia vita è migliorata. Quando feci la prima striscia di cui hai parlato avevo solo Instagram, perché avevo chiuso Facebook e Twitter un paio d’anni prima. Da tempo non ho più nessun social e non mi arriva più nessun bombardamento. Certo, c’è la sensazione di essere fuori da tutto, di sparire, di perdere occasioni, ma il bilancio a livello umano è positivo. Quello che mi è successo, dopo certe polemiche, è che non ho sviluppato una indifferenza, ma sicuramente che non attribuisco più nessuna autorità morale a queste persone. Nessuna!
In che senso?
Cioè, se un cane abbaia per dirmi che non dovrei scrivere o perché uso un linguaggio scorretto, lo sento abbaiare, ma non lo capisco. È un cane che abbaia. In questo modo non do più nessuna autorità morale a degli sconosciuti. Non li conosco. E se li intuisco, spesso non mi sembrano onesti intellettualmente. E poi, su questi temi, c’è gente che ha costruito carriere intere. Non vedo perché dovrei occuparmi di queste meschinità. Inoltre c’è un dettaglio da non sottovalutare: il mio libro non ti arriva a casa per forza, ma te lo devi andare a comprare, metterti seduto e leggerlo. A quel punto, cosa c’entro io? Se non ti piace, che cazzo vuoi da me? È il mio lavoro, ci campo a malapena, ma godo tantissimo a raccontare storie. Anche a 61 anni adoro il mio lavoro e continuo a entusiasmarmi. Ma non posso adattarmi a una sensibilità cambiata. Io non voglio essere opportuno. Neanche inopportuno, voglio solo essere libero.
Come si percepiscono i vari dibattiti sui problemi nel mondo senza le discussioni social?
Del mondo so poco, so quello che sanno tutti e che leggo sui vari media. Su tante cose non ho le competenze per parlare, sempre che servano competenze per stare, spesso, dentro a delle battaglie tribali. Ma un po’ tutto mi sembra diventato una battaglia tribale. Finché sono stato percepito nell’ambito della sinistra potevo dire e fare quasi tutto quello che volevo, mentre da quando ne sono uscito, anche le cose migliori che faccio, sono lette al contrario.
Hai qualche critica da avanzare al tuo ambiente, quello dei fumetti?
(sorride) Non lo conosco così tanto, perché non lo frequento. Non vado neanche alle fiere, a meno che non debba presentare un libro. Da quello che vedo, in generale, mi sembra che su alcune produzioni a fumetti degli ultimi anni la "polizia del pensiero" abbia attecchito moltissimo, e che il desiderio di propaganda abbia superato quello dell’espressione artistica. Così come credo che, quando si è parlato tanto di nobilità del fumetto, per me sia stata una stronzata enorme. Cioè, l'attribuire particolare valore ai fumetti, com'è successo anche ai miei. Sono convinto che sia una macchia di questo grande Paese.
Addirittura?
Ma sì, perché i fumetti funzionano se sono scemi! Vogliamo continuare a fare qualcosa che non richieda studio per essere fruito? Qualcosa per i poveri, le persone più semplici, per tutti, no? Invece oggi ci sono in giro un sacco di maestrini che ti fanno le lezioncine morali. Ma il fumetto non mi sembra il mezzo più adatto, perché è l’unico mezzo narrativo nel quale un personaggio può cadere da un canyon, spiaccicarsi, rialzarsi e correre via urlando. Farlo diventare la lezioncina pseudo satirica o il canto narcisistico dei propri tormenti, che ho fatto anch’io, mi sembra uno spreco. Vedo poche cose davvero libere e dirompenti in circolazione. Mi capita sempre meno di dire: ma questo da dove è uscito? Vedo un sacco di cose dove so benissimo come sono uscite.
Giovani che ti piacciono?
Ce ne sono alcuni che amo molto. Ho una storia curiosa con Gianluca Giovannini (in arte Giangioff), che mi aveva mandato il suo primo libro che era La mia vita disegnata male, la mia opera, ma disegnata molto peggio. E infatti lo trattai malissimo. Negli anni ha studiato, si è messo sotto, è cresciuto tantissimo. Infatti, nel secondo libro ha fatto passi da gigante. E il terzo ancora meglio. Ora siamo molto amici e potrebbe diventare un grande autore. Ci sono anche tante ragazze, rispetto al passato. Non perché prima fosse un ambiente patriarcale, perché il fumetto era un ambiente da sfigati e giustamente le bimbe se ne tenevano alla larga. Da quando ha smesso di essere così da sfigati ne sono arrivate tante e sono anche molto brave.
Visto che sei in quello che sembra uno studio di registrazione, stai progettando qualcosa di musicale?
Non so nulla di musica, ma voglio bene a un po’ di musicisti, questo sì. Ma gli voglio più bene di quanto li ascolti. Anche perché ascolto quasi esclusivamente gente morta.
Però hai uno studio attrezzatissimo in casa.
Sì, ma bastasse comprarsi gli strumenti per diventare un genio… Sto in mezzo agli strumenti da quando ho 12 anni ed è un amore assolutamente non corrisposto. Sai cosa faccio, da paraculo? Mi affianco a dei super musicisti che, più per compassione che per stima, ogni tanto suonano con me. Insieme abbiamo fatto le musiche del podcast. In più ci ho infilato un paio di canzoni. Perché quando faccio musica io faccio le canzonette, in italiano, con i testi stupidi, e mi diverto un mondo. Ho un po’ di cose caricate su SoundCloud, ma la gente sana di mente non le ascolta. Ce n’è una dove canto il mio Iban.

Prima hai detto: “Io ci campo ma a malapena. Non sarò mai ricco”. Le scelte di non avere social e di non far parte di un'area politica ti hanno penalizzato?
Sì, ma ho sempre fatto molte scelte simili in vita mia e tutte abbastanza indirizzate al fallimento. Tanti anni fa, per esempio, ho rinunciato a scrivere un libro a quattro mani con quello che era, allora, lo scrittore italiano più venduto. Perché non mi sembrava un buon lavoro. Eppure, con quell’anticipo mi sarei potuto comprare casa in contanti. Ho lasciato la televisione quando ero a Propaganda Live, nonostante mi dicessero che quando andavano in onda le mie cazzate avessero dei picchi di ascolto.
Perché hai lasciato Propaganda?
Perché mi faceva male quel tipo di esposizione lì. Sono un narcisista patologico, e se alimenti quel lato poi fai dei danni, in particolare alle persone accanto a te. Avevo anche una striscia su Internazionale che era adorata dal pubblico e ho smesso proprio perché era adorata dal pubblico, non mi piaceva l’idea di fare sempre qualcosa che trovavano tutti d’accordo. Mi sentivo morto artisticamente se, ogni settimana, tutti si aspettavano proprio quello. Ho fatto tutta la vita così, quindi lasciare i social ha comportato una assoluta riduzione dei miei volumi di attività, di offerte, di incontri con il pubblico. Poi, in particolare il primo periodo, c’è stato il vuoto totale. Almeno per un anno e mezzo, quasi due. Sono passato dal ricevere tre offerte di lavoro a settimana a zero per due anni. Qualcuno, dopo, si è rifatto sotto, ma io ero cambiato e quindi non volevo più lavorare con loro.
In un’intervista di qualche anno fa hai detto che i veri dispiaceri li hai ricevuti dai “compagni”, più che dalla destra che criticavi.
Sono stupidamente rimasto sorpreso. Avevo avuto parecchi conflitti con l’estrema destra, da Bibbiano a CasaPound, mi arrivavano messaggi dove mi minacciavano di spezzarmi le gambe, ma era tutto buffo e normale. Quando rompevo i coglioni ai terrapiattisti mi aspettavo che mi dessero del venduto. Mi divertivo e avevo questa sbagliatissima, superficiale e presuntuosa convinzione che riguardasse gli altri. Cioè, che nel nostro ambiente di sinistra, illuminati, civili, brave persone, dediti alle minoranze, ci fosse tutto un altro modo di vivere. Era una stronzata. Un certo tipo di sinistra, quella che si è sciroppata tutte le stupidaggini arrivate negli ultimi anni dall’America, nonostante si professi anti capitalista, le ha riportate da noi come se fossero parti della Bibbia. Ma quello che mi ha ferito è stata la brutalità e la capacità di violenza verbale arrivata da quella che pensavo fosse casa mia. Ora non la è più da molti anni.
Non ti sei neanche buttato dall’altra parte, come fanno molti.
Dovevo mettermi a disegnare la storia di Alberto da Giussano per prendere il plauso della Lega? Ma che cazzo! O dire: ero di sinistra fino a ieri, ma oggi ho fatto un saluto romano e mi hanno accettato in questa famiglia di maschi di destra. No, io ho abbracciato la solitudine. E sono sempre stato convinto che la solitudine, se la sai abitare, è una grandissima fortuna per un artista. Solitudine intellettuale e politica, perché per il resto ho ritrovato e rafforzato i legami umani intorno a me. Ho solo rinunciato all’amore fittizio che ti arriva dai social. Quella roba dove ti convinci che le persone ti stimino. Ma non ti conoscono, come fanno a stimarti? Quelli che mi conoscono non mi stimano, pensano che sono un coglione, ridiamo, facciamo un sacco di robe stupide e sono in pace.
Nel 2021 dicevi: “Sono diventato un artista borghese.” Ma era ancora il periodo in cui avevi i social. Oggi, ti consideri ancora così?
Sicuramente sono libero. Artista è un termine che uso perché non ne ho mai trovato un altro per indicare come sto al mondo. Poi, se sono un artista o una testa di cazzo, lo giudicheranno quelli che si avvicinano al mio lavoro. Ero un borghese perché era cambiata la mia condizione economica. Abitavo e abito in una casa molto bella, la mia vita era così cambiata che non potevo continuare a fare il ragazzo di provincia che aveva vissuto per strada ed era stato in galera. Quando vai a fare la spesa e non guardi il prezzo e al ristorante non guardi il conto, vuol dire che la tua vita è cambiata. Ora non è più così. Sono una sorta di nobile decaduto, con qualche eco di una ricchezza che, però, si sta sgretolando. Ma c’ho anche 61 anni, quanto cazzo ancora camperò?
In quest'epoca non è una età così avanzata.
Penso di non rischiare di trovarmi barbone per strada. E comunque, i libri continuano a vedere, soprattutto all’estero.

È vero che non pensavi di arrivare neanche a 30 anni?
No, infatti è un’inculata gigantesca arrivare ai 61. Diciamolo come va detto: un pacco di quelli atomici. Se avessi saputo che sarei arrivato a 60 anni ci sarei stato più attento, avrei fatto ginnastica, mi sarei curato i denti, avrei mangiato sano. Invece io ho fatto una vita come se fossi morto entro i 30 anni. Poi non sono morto neanche a 40 anni, nonostante l’epatite cronica. Hanno trovato la cura miracolosa e me l’hanno tolta. E sono arrivato a 61 anni, terrificante!
Cosa c’è di così terrificante nei tuoi 61 anni?
Ma sai che se incontro un 50enne, dentro di me sono ancora un 13enne che ha incontrato un signore e si deve comportare bene. E ho dieci anni di più! C’è qualcosa che non ho sviluppato. Trovo orrenda la vecchiaia, anche a livello biologico. In più non ho figli, quindi non posso neanche dire come sono bravi e belli i miei figlioli. E questa cosa qui ti costringe a continuare a tenere gli occhi su di te, che in fondo è una maledizione. Ancora di più quando il corpo si sgretola e il cervello comincia a perdere colpi. Ma rispettiamo chi è morto da giovane e avrebbero preferito essere qui al mio posto.
Forse questo tuo atteggiamento nasce dagli esordi con la musica punk. Chi è punk lo rimane per sempre?
Di quegli anni mi ricordo la sensazione di libertà assoluta. Nessuno pensava al successo. Suonare in una band hardcore punk, per noi, voleva dire solo una cosa: suonare dal vivo il più possibile. Ma non per gli applausi. Perché era troppo figo montare sul furgone, andare a un concerto, ubriacarsi, fare casino, persino prendersi a cazzotti, tornarsene a casa e sapere che l’unica cosa che contava davvero era l’amicizia fra i membri del gruppo. E l’energia che scaturiva quando si suonava. Per me, che suoni un pezzo hardcore o scriva Zaky, sono rimasto la stessa persona per la gioia nella produzione.
E ce l'hai fatta ad arrivare alla tua massima ambizione, cioè disegnare come suonava John Coltrane?
Era un’ambizione che, detta così, era a dir poco presuntuosa. Però, tolta la presunzione, sì. Non mi riesce sempre, ma ci sono momenti nei quali mi metto al tavolo e devo far sì che la misericordia di Dio scorra dentro di me. Ho usato lo stesso esempio di Coltrane, per lui la fede era una cosa seria. Io purtroppo non credo in Dio, ma sono fissato con Gesù, la Bibbia, i Vangeli. La cosa ancora magica del fumetto o della scrittura, è quando succede quel miracolo in cui sei lì, ma hai la sensazione di non essere più tu a fare le cose. O quando scrivo un dialogo tra due o tre personaggi, sento che mi devo sbrigare a scrivere prima che questi si accorgano che sto trascrivendo o disegnando quel dialogo. A volte, quando passo 4-5 ore in questa condizione, a un certo punto mi vedo le mani e non so cosa sono. Mi spavento. Però, quando sono dentro quel mondo lì, non ho mai la sensazione di essere io a scrivere. Quando invece ho la sensazione di scriverla io, alla fine mi fa schifo quello che ho prodotto e lo butto.
Ci pensi al Premio Strega? Sei stato candidato due volte con i fumetti, oggi invece hai un romanzo. Sarà la volta buona?
Stavolta vinco un premio nel fumetto con un libro senza disegni. Ti dirò questo, che è ascrivibile alla definizione: perché Gianni non riesci a rinunciare all’autodistruzione? Comunque, candidare un libro di fumetti al Premio Strega è una stronzata. Come candidare un film a un premio per spettacoli teatrali. Non c’entra niente. Una puttanata, perché sono mezzi espressivi diversi. Anche quando mi hanno candidato era nata una discussione piuttosto vivace. Io ero convintissimo che non dovessi esserlo, ma stavo zitto perché vendevo un sacco di copie. Ero un topo vigliacco che si godeva quel breve periodo di super vendite. Mi spiace, perché sono stati tutti gentili, solo che sembravo la mascotte. E non credo che un libro come Zaky possa ambire al Premio Strega.
Hai detto di aver rischiato di morire dieci volte per stupidità. Ma oggi che hai 61 anni, ci hai pensato a come ti piacerebbe morire un giorno?
Mi piacerebbe morire, mai! C’è un problema: non dovrebbero morire nemmeno mia moglie, la mia famiglia, i miei amici, le persone gentili che ho incontrato in vita, il mio cane anche se puzza in modo devastante. Siccome è impossibile, mi toccherà morire. Mi sarebbe piaciuto morire con la convinzione di aver fatto qualcosa di rilevante a livello artistico. Siccome non è ancora successo, spero almeno di morire dopo mia moglie. Non voglio soffra per la mia dipartita.
