“Se le cose non cambiassero mai sarebbe assurdo”, sentiamo dire a Hirayama, il protagonista di Perfect Days, il nuovo film di Wim Wenders. In un film in cui al centro ci sono la routine, la normalità e la ripetizione una frase del genere stride. Ma come, siamo costretti a pensare, nell’eterno riproporsi delle stesse giornate stavamo così bene. Perché cambiare? Perché cercare una novità? La verità è che anche la routine non è sempre uguale a se stessa. Si modifica, anche se in maniera impercettibile. Lo fa costantemente. Con lentezza, un po’ come quelle piante che Hirayama ama fotografare durante le sue pause pranzo. La normalità è come la Komorebi, termine giapponese che indica la luce che passa attraverso le foglie degli alberi: ogni riflesso è unico e irripetibile. Hirayama si alza al mattino (senza sveglia, quasi come fosse anche lui un albero, che alza le foglie con la luce), annaffia le sue piante e va a lavoro: si occupa della pulizia dei bagni di Tokyo. Bagni ultramoderni, futuristici, degni della navicella di Stanley Kubrick in 2001. Per spostarsi si muove con il suo furgoncino e lungo la strada ascolta vecchie cassette: The Animals, Lou Reed, Patti Smith. Il suo collega è un giovane sfaticato, Takashi, che cerca l’aiuto del mentore per conquistare una ragazza, che però gli preferisce la musica di quei nastri. Parla poco, Hirayama, quasi per niente. Saluta le persone con un cenno del capo solo quando queste gli restituiscono lo sguardo. Finito il turno, va a lavarsi nelle docce pubbliche, per poi andare a bere un bicchiere nello stesso bar e a mangiare nello stesso ristorante. In quest’ultimo lavora Mama, una donna che sembra attratta dal protagonista, una “storia” a cui Wenders accenna solamente. Tornato a casa, legge fino ad addormentarsi. Possiede, infatti, una notevole libreria che aggiorna settimanalmente. Così come settimanalmente aggiunge le immagini sviluppate degli alberi che fotografa ogni giorno. O almeno quando la luce lo permette.
Koji Yakusho, miglior attore protagonista al Festival di Cannes del 2023, dà vita a un personaggio che riesce a vivere il presente, che abita il suo tempo senza che questo sia scandito dal procedere delle lancette: ogni mattina, infatti, l’orologio viene lasciato a casa. C’è il presente del lavoro, le mani che si muovono precise negli angoli dei bagni e l’attenzione per ogni dettaglio. Il presente del viaggio, scandito dalla playlist analogica delle cassette. Il presente del pranzo e quello del ritorno a casa, del riposo. Alla nipote, scappata di casa dopo un litigio con la madre, Hirayama dice: “Adesso è adesso, un’altra volta è un'altra volta”. Non c’è bisogno si stabilire con troppa precisione il “quando”: questo arriverà da solo. Ma l’interpretazione di Yakusho non si appiattisce sulla figura dell’uomo comune che vive una vita zen. Il suo rapporto con la sorella, con Mama e con Takashi danno profondità al personaggio. Le difficoltà, più simili a imprevisti a dire il vero, dimostrano che Hirayama è tutt’altro che apatico. Piange quando la sorella gli racconta della condizione di salute del padre, gioca con uno sconosciuto a tris tramite un foglietto lasciato nell’angolo di un bagno e condivide birra e sigaretta con l’ex marito di Mama. E quei sogni in bianco e nero: immagini di acqua che scorre, di vento che soffia tra i rami e dettagli dei palazzi di Tokyo, la metropoli che appare sullo sfondo di tutto il film, ma che sembra stanca, abitata da anziani. Una città molto diversa da quella caotica che Wenders aveva raccontato in Tokyo-Ga nel 1985, il suo documentario sul regista Yasujiro Ozu: adesso è lenta, senza fretta, fatta di persone che hanno tempo da perdere. Il tempo della ripetizione che, paradossalmente, diventa sempre diverso. Basta che si aggiunga una semplice variazione al tema. Come le fronde degli alberi, che si allargano con i secoli. Millimetro dopo millimetro. È vero che Wim Wenders ci ha voluto parlare dell’ordinario, di un uomo comune che vive ogni giorno sapendo che quello successivo sarà quasi identico. In quel “quasi”, però, c’è la tridimensionalità della vita. La bellezza sta nelle impercettibili modificazioni di ogni istante. Altrimenti, sarebbe assurdo. Forse per questo motivo il regista ha voluto declinare al plurale il titolo della canzone di Lou Reed, Perfect Day. Quello perfetto non è un solo giorno. I giorni perfetti sono tanti. Anche se a modificare quella perfezione è un semplice riflesso sulla parete di un bagno pubblico.