“Sono nato, ma”… Così si chiamava un film di Yasujirō Ozu, quel “ma” avversativo è necessario per i fan, come me, di Hayao Miyazaki di fronte a una prova che per quanto ottima è vagamente derivativa, ovviamente in Miyazaki derivativo non significa mai meno che buono. Andiamo per ordine: Dio benedica Hayao Miyazaki e il suo cinema fatto di finte attese. Sembra di aver chiuso gli occhi solo ieri ma, in realtà, sono passati dieci anni da quando uscì Si alza il vento, l’opera che doveva essere una parte del testamento di questo artista immenso. Con “Il ragazzo e l’airone” Miyazaki ritorna a parlare di sé nei lidi della coming-of-age story, di quelle malinconiche eppure non stucchevoli che piacciono trasversalmente ai grandi e i piccoli.
Mahito Maki è un ragazzo di dodici anni che, dopo avere perso sua madre nell’incendio di un ospedale, si trasferisce col padre nella casa fuori città della gravida zia Natsuko. Se in “Si alza il vento” eravamo negli anni della Grande guerra, qui siamo agli sgoccioli della seconda guerra mondiale e di nuovo - come per Chihiro ne “La città incantata” - in una età di confine, la pre-pubescenza che è quella anticamera tra l’infanzia e l’inizio dell’età adulta, luogo anagrafico deputato a formare l’identità che ci contraddistinguerà il resto della vita. Così come gli elementi anagrafici anche i luoghi per Miyazaki sono importanti: è una magione strana quella dove si ritrova Mahito, con peculiari matrone anziane che si occupano delle faccende di casa, una zia che è la copia carbone della madre, una torre in lontananza che attira l’attenzione del giovane e un airone cenerino che sembra perseguitarlo. Come ho già scritto altrove: “È con una bella ferita che veniamo al mondo, poco importa se la ferita è quella provocata da Mahito stesso”, se è la porta di una torre misteriosa, di sogni dove sua madre è ancora viva, di un cancello dorato o il becco di un airone. Quella è la ferita originaria su cui costruiamo un’intera esistenza fatta più di assenze che di presente, di morti più che di nascite, di rimpianti più che di rimorsi, di rincorrere il passato più che cercare segnali di un futuro prossimo. “Il ragazzo e l’airone” è lo specchio che attraversò Alice trovando un mondo non meno ostile di quello che lasciava; così per Mahito che deve salvare la zia incinta e malata in una dimensione - come sempre per il creatore di Totoro - fatta di personaggi che non sono mai totalmente cattivi o completamente buoni. A 83 anni è incredibile che la vena creativa usata da Hayao per creare nuovi personaggi non si sia esaurita da tempo. Fa piacere a noi affezionati della prima ora ritrovare richiami e copie minori di creature già conosciute nella sua personale mitologia.
Commovente, conturbante, dadaista e luminoso: quest’opera non segue una linea logica, ogni avventura che affronta Mahito all’interno del mondo/torre sembra scollegata dalle altre e pare quasi che sia un universo appena abbozzato contrariamente a quello barocco, bulimico ma ossessivamente studiato de “La città incantata”. Ci sono infinite storie e possibilità da raccontare, in due ore ne vengono sfiorate molte ma non possiamo affezionarci a nessuna. La confusione va benissimo, nonostante renda la visione più viscosa in alcuni punti, ma si perdona ogni calo narrativo quando ritroviamo la tenerezza di cui sono capaci i protagonisti di Miyazaki: come la copia giovane di una madre pronta a morire infinite volte pur di dare alla luce suo figlio. Perché Miyazaki è anche un moralista della migliore razza, quello che in prima persona ci mette la faccia per lasciare un messaggio positivo alle nuove generazioni, senza che la lezione risulti ingombrante e sperando che non sia mai l’ultima. Miyazaki, ha sempre una magia in serbo per noi, come per esempio le musiche di Joe Isahishi, ossia il perfetto e cupo contraltare ai lunghi momenti di silenzio contemplativo; l’animazione dell’incendio iniziale è magistrale; la volontà dell’animatore Atsushi Okui di rendere tutto più cupo dà a questo inferno dantesco il giusto tono; come la filosofia del doppio, del doppelgänger che sembra citare gli incubi a cui ci ha abituati David Lynch. “How do you live?” (E voi come vivrete?) non è solo titolo del libro di Genzaburō Yoshino che negli anni ’30 girava tra le mani del regista e dei suoi coetanei, ma il vero titolo del film di Miyazaki: italianizzato con Il ragazzo e l’airone dal titolo inglese “The Boy and the Heron” perde un elemento importante. Quel “e voi come vivrete?” è una domanda universale e attuale più che mai: cosa vogliono essere i bambini di ieri e gli adulti di domani? Benché il film si discosti dal libro, l’elemento principale rimane lo stesso: come si affrontano le avversità della vita, i lutti, e i periodi di follia storica in cui viviamo? In principio questo film doveva essere un omaggio al mentore e collaboratore Isao Takahata. La figura del prozio di Mahito è impregnata dell'essenza dell'amico di Miyazaki. Un’opera basata perlopiù sul rapporto tra Mahito e il mago che, nella versione definitiva in sala, si sposta tra il ragazzo e l’airone. Eppure, il cuore della storia rimane lo stesso: che strada vuole prendere Mahito in quella torre dove bene e male sono elementi che si sovrappongono continuamente? Per quanto brutto, ostile, doloroso, ingiusto e pregno di tutte le emozioni negative sia il mondo reale, è il nostro mondo, ed è l’unico che ci rimane per quanto sia impossibile - forse - salvarlo. Risolti, forse, i conflitti esterni ed interni (l’immagine di una madre e di una infanzia felice che non si vuole lasciare andare) a Mahito verrà illuminata quella strada di mattoni gialli che porta al palazzo di smeraldo, che porta alla consapevolezza che crescendo la vita non è altro che una cerimonia degli addii.