Le cose da vicino sembrano più piccole, invece Michael Cunningham, uno dei più grandi scrittori viventi, da vicino sembra ancora più grande che a leggerlo sulla pagina. Il modo schietto, appassionato e rigorosamente pratico con cui parla del suo ultimo romanzo, Day, davanti a una tavola rotonda di giornalisti nella sede della sua casa editrice italiana, La Nave di Teseo, restituisce l’immagine di un artista che all’eccellenza arriva grazie al lavoro costante, alla ricerca continua, oltre che alla perfetta padronanza della cassetta degli attrezzi di uno scrittore. “Spendi l’intera vita cercando di capire come scrivere un buon romanzo e magari nemmeno ci riesci” dirà a un certo punto della discussione. “Mi viene sempre in mente Monet, il pittore impressionista, che a ottant’anni faceva questi meravigliosi quadri enormi in cui rappresentava l’acqua ma era ancora insoddisfatto, si arrabbiava con sé stesso perché non riusciva a rappresentare il movimento delle onde come avrebbe voluto. Scrivere, in fondo, è esattamente questo”. Tutt’altra musica rispetto a scrittrici e scrittori di casa nostra ubriachi del loro ego, convinti della loro grandezza a prescindere, paralizzati nella posa della mano a pugno a reggersi il mento. In precedenza, l’autore di The Hours aveva esordito spiegando da dove gli è arrivata l’ispirazione originale per il nuovo libro, fornendo, nel farlo, una notizia tutt’altro che scontata: “Stavo terminando un romanzo, quando è scoppiata la pandemia. In quel momento di incertezza, mi sembrava insensato scrivere un libro che ignorasse completamente un evento così importante. Siccome non potevo inserire la pandemia nel libro che avevo già scritto, ho deciso di scriverne uno nuovo”.
Dunque, se tra Day e il suo romanzo precedente sono trascorsi nove anni, a occhio e croce l’attesa per il prossimo non sarà così lunga. “Ovviamente” continua Cunningham “non potevo limitarmi a scrivere di pandemia, giacché la pandemia non è, di per sé, un argomento buono per un romanzo. Un romanzo è fatto di persone: e così è venuta l’idea di scrivere un romanzo sulla vita di una famiglia normale, su come queste persone ordinarie sopravvivono a un fatto eclatante come la pandemia. La struttura formale di Day nasce per essere funzionale a questa esigenza”. L’ispirazione per i personaggi principali, Dan e Isabel, viene da persone realmente esistenti, e non si tratta di un caso. “Scrivo sempre ispirandomi a persone che conosco, cercando di fare qualche cambiamento perché non si arrabbino troppo. Anche questa volta è andata così: conosco coppie che, proprio come Dan e Isabel, sono innamorate di un fratello omosessuale di uno dei due. Quando ho iniziato a scrivere non sapevo quale sarebbe stato la conclusione della storia: quando comincio a scrivere cerco di non pensare mai a come finire un libro, per evitare che i personaggi diventino dei semplici strumenti di questa fine. Preferisco iniziare e vedere quello che succede”. Essendo il romanzo ambientato durante l’emergenza del 2020, qualcuno gli domanda come sia stata la sua pandemia, se il lock-down, con tutto il tempo a disposizione per scrivere, sia stato per lui in qualche modo produttivo. “So che molti scrittori sono riusciti a essere straordinariamente prolifici in quel periodo. Mi piacerebbe esserlo stato anche io, ma la verità è che non ci sono riuscito. In quei mesi non ero neanche sicuro ci sarebbe stato un futuro, anche per colpa di chi era Presidente allora…”. Visto il riferimento politico, ne approfittiamo per fare una domanda anche noi.
Pensi che la pandemia ci abbia insegnato qualcosa? Ovvero: pensi che le persone cambino sulla base delle esperienze vissute? Perché, per esempio, tra qualche mese quel tizio che era Presidente allora rischia di diventarlo di nuovo…
Se intendi a livello politico, no, credo che i nostri politici non abbiano capito nulla e per quanto mi riguarda io, semplicemente, non capisco come facciano gli americani a votare ancora per Trump. Qualche mese fa credevo fosse impossibile che sarebbe diventato Presidente di nuovo, mentre adesso ho cambiato idea. Ma da un punto di vista umano, credo che l’esperienza della pandemia abbia avuto comunque un valore per noi. Quelle immagini dei dottori e dei lavoratori degli ospedali che andavano comunque a lavorare… credo abbiano aumentato il nostro senso di umanità”.
Sempre su questo tema, più tardi definirà l’ormai inevitabile scontro tra Trump e Biden del prossimo novembre come “una sorta di film giapponese catastrofico, qualcosa tipo Godzilla contro un robot”. Una visione piuttosto pessimista, dunque, che tuttavia non passa dalla solita, banale demonizzazione del web e dei social network. “Certo, sul web ci sono le fake news e tutto quello che sappiamo. Ma io, se devo dire la verità, adoro Instagram. Non solo puoi sbirciare dentro la vita di innumerevoli persone, ma puoi iniziare, in un certo senso, dopo un certo periodo che le segui virtualmente, a conoscerle davvero, a capire che cosa fa parte del loro mondo e cosa no. Internet sicuramente pone dei problemi, ma di una cosa sono certo: ha dato a molte più persone la possibilità di raccontare una storia”. A proposito di contesto, anche in Day, come nei precedenti libri dello scrittore, l’ambientazione svolge un ruolo fondamentale, diventando essa stessa una sorta di personaggio capace di influenzare direttamente la vita dei protagonisti. La discussione vira quindi su New York, dove Cunningham vive e dove il romanzo è ambientato, concentrandosi inevitabilmente sui prezzi proibitivi degli appartamenti. “Se sei un giovane artista o una persona che guadagna meno di un milione di dollari all’anno, è impossibile vivere a New York. Lo vedo continuamente con i miei studenti: in pochi dopo l’Università vi si trasferiscono. Questo, del resto, è proprio il motivo per cui Robbie (il personaggio più riuscito di “Day”, attorno al quale gravitano le vite di Dan e Isabel n.d.r.) prende la decisione di partire per l’Islanda”. Avendo vissuto per cinque anni a Brooklyn – a pochi metri, tra l’altro, dalla casa di Dan e Isabel – ne approfittiamo per la nostra seconda domanda.
Come immagini New York tra trent’anni? Sarà ancora una città così centrale per il nostro immaginario o il suo essere diventata una sorta di ghetto per ricchi ne cambierà lo status?
Credo che i giorni di New York come centro culturale del Paese siano finiti e che quel ruolo venga oggi svolto da città come Los Angeles (in seguito aggiungerà anche Austin, capitale ed enclave democratica nel Texas repubblicano). Conosco persone che si sono trasferite a L.A. ma non conosco nessuno che si sia trasferito a New York. Le città cambiano soprattutto grazie ai giovani artisti: e per i giovani artisti non solo Manhattan ma tutti i quartieri di New York sono inavvicinabili.
La chiusura è per una (grande) riflessione sul significato profondo della professione di scrittore. “Quando Napoleone ebbe la cattiva idea di invadere la Russia c’erano diversi storici a documentare le conseguenze di questa scelta da un punto di vista storico. Grazie alla Storia, dunque, sappiamo cosa accadde a Napoleone e alle persone di primo piano coinvolte, ma è solo grazie agli scrittori se conosciamo le vite dei soldati morti di freddo durante la ritirata. Ecco, io credo che il ruolo dello scrittore sia questo: registrare e documentare la vita di persone che la storia dimenticherebbe, e che invece, secondo me, è importante ricordare”.