Michael Cunningham ha scritto un nuovo libro, erano passati nove anni dall’ultimo, e per di più un romanzo, erano dieci da La regina delle nevi. Come se non bastasse questo nuovo romanzo, Day, disponibile in Italia da oggi per La nave di Teseo, obbedisce a un presupposto formale rigidissimo, una “struttura a tre” proprio come il romanzo più celebre dello scrittore americano, quel The Hours (chiedo pietà all’editor di questo articolo: per favore, non traduca il titolo originale in italiano) che resta uno dei romanzi migliori degli ultimi trent’anni. Laddove The Hours seguiva la storia di tre donne di tre epoche diverse tenute insieme dal filo rosso del rapporto con il romanzo di Virginia Woolf Mrs Dalloway, Day racconta la vita di una famiglia di Brooklyn il quinto giorno del mese di aprile di tre anni diversi: il 5 aprile 2019, prima dello scoppio della pandemia; il 5 aprile 2020, con il mondo in lockdown in piena emergenza Covid; e il 5 aprile 2021 con la vita che lentamente torna alla normalità. Purtroppo le pur vaghe analogie con The Hours finiscono qui. È bene dirlo subito: Day non raggiunge i livelli di The Hours, ma nemmeno quelli, comunque eccellenti, a cui Cunningham ci ha abituato con i suoi romanzi – penso per esempio al superbo Flesh and blood, in italiano “Carne e sangue”, anch’esso recentemente ripubblicato dalla Nave di Teseo. E se non li raggiunge, la colpa principale è dei due personaggi principali, Isabel e Dan, una coppia di giovani adulti, o per meglio dire di vecchi giovani, sposati da una decina d’anni, che alla soglia dei quaranta si trovano incagliati nella disillusione della crisi di mezza età. Quanto ho letto l’abstract del romanzo lo scorso novembre (chi scrive ha letto l’edizione americana) pensavo al capolavoro annunciato: nessuno, tra gli scrittori contemporanei, ha saputo descrivere le contraddizioni, le sfumature, le gioie e le disillusioni dell’animo umano come Cunningham; e il fatto di trovarlo alle prese con una storia dedicata proprio ai quarantenni (incidentalmente, l’età di chi scrive) durante una fase problematica come quella della pandemia faceva pensare al meglio. E invece, contrariamente a quanto accaduto in passato con i personaggi di Cunningham, Isabel e Dan faticano a creare empatia nel lettore, e il lettore, pur armato di buona volontà, fatica a identificarsi con loro. Lei, a parte lamentarsi ed esibire appena può un comportamento preso dal manuale del buon partner passivo-aggressivo, non fornisce elementi utili a meglio comprendere il suo conflitto interiore, che rimane piuttosto vago e distante; lui, aldilà dei fastidiosi atteggiamenti da “bimbominkia” (la fissa dei capelli ossigenati a quarant’anni) non è dotato né di un carisma in grado di stimolare curiosità, né di un’attitudine tale da provocare sentimenti particolarmente negativi. Si tratta, insomma, di due persone normali: ma se nei precedenti romanzi il gioco di prestigio di Cunningham è sempre stato quello di saper cogliere l’universale nel particolare, qui il particolare resta tale, con la zavorra della noia a fare da corredo. Una mancanza che si spiega, forse, con la grande attenzione che l’autore dedica invece al personaggio di Robbie, fratello gay di Isabel, che all’inizio del libro vive nella mansarda con il resto della famiglia (oltre a Isabel e Dan, ci sono i due figli, Nathan e Violet).
Di Robbie, i due coniugi sono platonicamente innamorati e non potrebbe essere altrimenti: Robbie è acuto osservatore, buon amico che sa farsi all’occasione concavo e convesso; ha una parola buona per tutti e come ci sa fare con i bambini lui, nessuno. Ha pure creato un alter ego virtuale, Wolfe, un uomo immaginario di cui Robbie gestisce con cura certosina il profilo Instagram, per la gioia di migliaia di fan. Robbie, insomma, sarebbe un essere umano ideale: ma come personaggio di un libro è semplicemente terribile, giacché non ha alcuna altra funzione se non quella di mostrare agli altri quanto lui sia meglio di loro. Cosa l’autore intendesse fare con Robbie, resta un mistero insoluto fino alla fine; la stessa cosa accade con il fratello di Dan, Garth, che ha donato il seme a Cess, donna lesbica che ha avuto un figlio ma che con Garth non vuole avere nulla a che fare, per la disperazione di lui. Una linea narrativa complessa sulla carta, ma molto abborracciata nella sostanza - in totale porta via non più di una trentina di pagine - e che stupisce per la superficialità con cui viene trattata. A pensar male si fa peccato, diceva quel tale, ma quasi sempre ci si azzecca: la sensazione è che Cunningham avesse tra le mani un abbozzo di novella – secondo gli standard editoriali americani, un romanzo sotto le sessantamila parole – e che qualcuno (la casa editrice, l’agente, vai a sapere) abbia spinto per gonfiarlo in fretta e furia in modo da capitalizzare sul recente trend di romanzi sulla pandemia che caratterizza il mercato USA (Tom Lake, Dayswork, The Vulnerables, sono solo alcuni titoli della valanga uscita di recente). E l’autore, invece che prendere la strada più complicata, e approfondire la dinamica principale del libro, il rapporto tra Dan e Isabel, abbia scelto per mancanza di tempo quella più veloce, procedendo per accumulo. Mi rendo conto che una critica del genere a Cunningham sfiori l’eresia: ma lo dico dal punto di partenza di una lettrice che ha amato i suoi libri in modo incondizionato, la cui delusione non riesce a essere mitigata per intero da quelli che sono invece i punti di forza del libro. Perché se non si riesce ad apprezzare “Day” sulla lunga distanza, Cunningham riesce comunque a incantare sulla corta. Intanto, per la lingua utilizzata – purtroppo difficilmente apprezzabile allo stesso modo in italiano - ma soprattutto sulla frase secca, l’osservazione fulminante capace di definire un carattere, una personalità, un’esistenza. La frase, insomma, che sottolinei e rileggi più volte, sperando di ricordarla per sempre. Un esempio tra i tantissimi: per descrivere il modo di allacciare i bottoni dell’abito di Isabel, l’autore scrive di una gonna allacciata fino al punto “That separates dignity from display”. Viviamo in un Paese in cui lo scrittore Sandro Veronesi, nel suo Colibrì, romanzo vincitore del Premio Strega 2020, scrive cose come “lo lasciò lì come un salame”, “aveva uno sguardo magnetico” fino a quell’indimenticabile “fa capoccella” per descrivere l’atto di sporgersi a guardare dalla porta, da vero barcarolo romano doc. È sempre una questione di punti di vista: e dalle bassezze attuali di casa nostra, anche il punto più basso della carriera di Cunningham appare comunque irraggiungibile.