Arriva la cinquina del Premio Strega. Postorino, D'Adamo, Canobbio, Petri, Calandrone. Ciò che era prevedibile è avvenuto. Ma la speranza c’era. Che per la prima volta dall’edizione in cui vinse Edoardo Albinati con La scuola cattolica, un libro incredibile potesse vincere. Uno di quei libri che non escono spesso, che fanno la muffa nelle librerie dei cosiddetti “lettori forti”, ma riescono ad arrivare anche (come si è visto) a un grande pubblico, oltre che a molte giurie. Ma non agli Amici della domenica, in ferie perenne (come si addice al giorno del Signore) dalla Letteratura.
Il Premio Strega si conferma il Sanremo dei libri, anzi: il Premio Ravera dei libri. Il I migliori anni di Tolentino, un paesino nelle Marche di 20mila abitanti (che da quest’anno passerà il testimone a Castelraimondo, un paesino di 4mila anime). Una sorta di grande giostra che vede sfilare, ogni anno, Iva Zanicchi, Fausto Leali, un conduttore di primo piano (Carlo Conti per esempio), e qualche realtà locale di danza o cose simili. Una fiera di paese musicata con i grandi e soliti successi, lo zucchero filato dei Cugini di Campagna, Anima Mia, e le nocciole pralinate di Iva Zanicchi, Zingara.
Ecco, anche il premio Strega va avanti a noccioline e leccornie, poco più di una sagra di paese e poco meno di un sondaggio da gruppo Facebook. Perché il Premio Strega premia i soliti noti, esclude i migliori, lavora quasi con ironia nella selezione dei (quasi) peggiori tra i papabili. Tranne poche eccezioni (il libro di Romana Petri), la cinquina sembra essere il capovolgimento, il contrappasso di senso che proprio l’ironia imporrebbe.
Peccato che l’intento dei votanti non sia questo. Che di paradossi non ve ne siano affatto, soprattutto se la logica del premio, ormai da vari anni, ingloba tra le sue regole quella di turbare il meno possibile il panorama letterario, premendo sulla produzione Netflix degli editori con un minimo di mercato. Dal trascurabilissimo romanzo di Maria Grazia Calandrone, Dove non mi hai portato, un libricino per le vacanze da biennio superiore di cui si potrebbe premiare solo la “serialità” (non è il primo romanzo sullo stesso tema), allo zoppicante Come d’aria di Ada D’Adamo, la cui scomparsa non poteva che attivare i soliti comportamenti adulatori nei confronti di un libro a tratti curioso, a tratti incompleto.
Intanto i grandi libri restano fuori. Fin da principio titoli interessanti come Il duca di Matteo Melchiorre (Einaudi), Il mulino di Leibniz di Paolo Mazzarello e Un giorno e una donna. Vita e passioni di Christine de Pizan di Nicoletta Bortolotti non hanno fatto strada. Il primo inattuale, il secondo impegnativo, il terzo raffinatissimo. E stringendo la cinghia per passare dai dodici ai cinque, ci siamo persi per strada i due libri dotati di maggiore intelligenza letteraria: Il continente bianco di Andrea Tarabbia e Ferrovie del Messico, di Gian Marco Griffi. Proprio quest’ultimo avrebbe meritato la vittoria. Scarsamente apprezzato dagli Amici della domenica, finisce troppo giù nella classifica per meritare il round finale di una gara che avrebbe vinto senza sforzi. Se, chiaramente, ci si sforzasse di premiare la letteratura sempre e non solo rarissime, anomale, volte.
Le aveva tutte persino dal punto di vista editoriale. Ai premi poteva allettare la vicenda del caso letterario dell’anno, lo scrittore quasi sconosciuto pubblicato da un piccolo editore, un romanzo di 800 pagine curato con maestria e stacanovismo da Giulio Mozzi. Invece niente. Neanche l’esperienza di un libro tanto acrobatico ha permesso agli assidui di spostarsi un millimetro dalla convenienza letteraria premiando i premiabili su cui puntano tutti, i cavalli drogati dell’editoria.
A certi romanzi dovrebbero fare il test antidoping. Verrebbe da dire che sono troppo: troppo azzeccati dal punto di vista della trama, del linguaggio, dello svolgimento. Libri costruiti neanche per vendere (magari l’intento fosse tanto nobile), ma per piacere a chi di dovere. Sanremo, appunto. Il festival delle influencer italiane (le Chiare Ferragni e le Annalise delle nostre estati). Così Rosella Postorino, con un libro scimunito, probabilmente vincerà (se D’Adamo non muoverà a ulteriore compassione), mentre l’occasione di rimettere al centro del discorso Calvino, Ariosto, cioè l’idea che nel libro la storia abbia ancora un valore, a partire dalle peripezie, insieme però a un certo gusto per la lingua (che va da Gadda a Joyce) dismaga.