E se Clint Eastwood non fosse il simbolo americano, né l’America stessa, ma qualcosa di più? Persino un nemico dell’America? Se fosse così irregolare, così eretico, così alternativo da sembrare pericoloso? Il suo cinema, le sue idea, la sua vita, la sua casa di produzione (la Malpaso) sembrano portare a questa conclusione. Il nuovo saggio di Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri anche. Spettri di Clint. L’America del mito nell’opera di Eastwood (Baldini+Castoldi 2023) è una sistematica decostruzione della carriera di uno dei più anarchici attori e registi della storia. La tesi portante, attraverso un parallelismo con la “geografia” del suo ranch, è che il cosiddetto “mito americano” sia stato continuamente smascherato da Clint Eastwood. Le contraddizioni, la violenza, i soprusi e la sopraffazione. Il mito militaresco del maschio insensibile, duro, spietato, si scontra con sensibilità, affetti e spaesamento (forse perché figli di un’epoca che Eastwood sapeva sarebbe, di lì a poco, finita?).
Ma è solo insofferenza esistenziale, un io che si trova stretto in una società pensata a uso e consumo dei lettori distratti della politica e dell’economia del Paese? Qui entra in gioco una simpatica analogia. Spettri di Clint ricorda inevitabilmente Spettri di Marx, il libro trascurabile di Jaques Derrida sul marxismo che sopravvive dopo la fine della Guerra Fredda. In un certo senso Clint Eastwood attraversa il secolo trasformandosi, come il marxismo stesso, attraverso la sua fase ortodossa e irrisolta (il cowboy spietato che non ammette mezze misure) fino a una sua fase postmoderna e ipertestuale. Forse la pecca del libro è la mancata linearità del saggio. Le premesse e gli obiettivi non sono molto chiari e il libro risulta più un racconto sconnesso e fin troppo aneddotico legato insieme da concetti e termini presi in prestito dalla cultura marxista (gli autori scrivono per Il Manifesto).
Il risultato è un fraintendimento profondo dell’opera di Clint e di Clint Eastwood stesso, fatto passare, sotto sotto, per postmodernista, sessantottino senza esserlo stato, femminista senza essersi dichiarato così. Una sorta di sovrainterpretazione del fenomeno Clint in un’America sicuramente contraddittoria ma che non viene smascherata attraverso gli strumenti del marxismo culturale (della Critical theory eccetera) ma del libertarismo. Prima repubblicano e poi legato al Libertarian Party, Clint Eastwood è l’old America (anche un po’ incazzata) che viene spesso associata all’immagine, anche un tantino snob, dell’uomo insensibile, del selvaggio inespressivo e cinico. E allora, se si tiene a mente questa immagine, ecco che Eastwood sembra mettere in mostra una sorta di contraddizione tra l’americano tipo (il repubblicano jeffersoniano) e l’uomo sensibile che sa o almeno prova a mettersi in dubbio. Contraddizione, appunto, solo apparente. Allora si può leggere Spettri di Clint docciando il racconto da qualche eccesso marxista, trovare lo stimolo per leggersi un po’ di letteratura libertaria e liberale americana (da Lysander Spooner a Murray Rothbard) e godersi una storia che vale la pena di essere conosciuta indipendentemente dalle interpretazioni a posteriori. Per fortuna Clint Eastwood resterà sempre un eretico, ma non di quel lato dello spettro politico presentato nel libro. Il merito di questo lungo saggio resta, comunque, quello di raccogliere in modo quasi maniacale intuizioni e input dall’intera filmografia eastwoodiana, anche se suddivisa in capitoli tematici in modo spesso arbitrario.