Andrea Sceresini e Lorenzo Giroffi sono due giovani giornalisti italiani, uno del sud e uno del nord, che si occupano di questioni calde e pericolose, quelle che in genere non permettono di tenere le chiappe al caldo delle redazioni ma spingono verso l’avventura. Nell’autunno del 2014 sono andati come freelance a documentare la guerra sanguinosa scatenatasi nella regione ucraina del Donbass, muovendosi lungo le due sponde del fronte, da Donetsk a Lugansk, passando per Kiev. E quello che hanno visto l’hanno raccontato in Ucraina. La guerra che non c’era, un reportage già pubblicato nel 2015 e ora ridato alle stampe, molto opportunamente, da Baldini+Castoldi. Perché questa specie di odissea che si dipana fra trincee, posti di blocco, bombardamenti, miliziani, ufficiali e volontari ubriachi di ideologia ci riporta in modo drammatico alla folle guerra d’invasione che la Russia di Vladimir Putin sta lanciando oggi contro l’Ucraina e tutto l’Occidente europeo. Sono trascorsi solo tre giorni da quando, la sera del 21 febbraio, Vladimir Putin ha riconosciuto in mondovisione le Repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk e l’esercito russo è entrato in forze nel Donbass. “L’Ucraina non è mai stata un vero Paese”, ha detto Putin durante il suo rabbioso discorso. “L’Ucraina è stata contaminata dai virus del nazionalismo, del nazismo e dalla corruzione degli oligarchi”. (…) Oggi, mentre le bombe piovono su Kiev, Kharkiv e Mariupol, le parole del nuovo zar si sono fatte ancora più taglienti: “Non deve esserci alcun dubbio sul fatto che un attacco diretto contro la Russia terminerà con la sconfitta dell’aggressore”, ha detto. “Chiunque minacci o interferisca con le azioni della Russia deve sapere che la nostra risposta arriverà senza ritardo e porterà conseguenze che non avete mai visto nella storia”.
Questo racconto della furia scatenatasi nel Donbass è incalzante, essenziale, efficace, e si rivela fondamentale per capire l’invasione genocida di Putin ai danni dell’Ucraina, perché ciò che accadde allora, il modo in cui si sviluppò e gli strascichi che si lasciò dietro appaiono come il disegno preliminare, la prova generale della guerra di aggressione che ci sconvolge in questi giorni. Se faticavamo a comprendere il senso degli intenti espansionistici dell’autocrate russo, così distanti dalla nostra mentalità, con il racconto di Sceresini e Giroffi ci si chiarisce una montagna di cose su quella terra, su quella gente, su cosa spinge una collettività che si sente nazione a decidere di combattere a ogni costo. Come si legge nell’introduzione, “così è iniziata, dopo quasi otto anni, la seconda fase della guerra in Ucraina. Che dovesse essere così lunga – e così maledettamente complessa e sanguinosa – in pochi lo avevano immaginato. Era la primavera del 2014 quando le due province dell’Est proclamarono la propria indipendenza e imbracciarono le armi contro Kiev. Erano trascorsi pochi mesi dalla rivoluzione filo-occidentale di piazza Maidan. La deposizione del governo di Viktor Yanukovich non era piaciuta a molti, specie nell’Est – ma soprattutto non era piaciuta al Cremlino. Così gli “omini verdi” (soldati russi senza contrassegni, ndr) avevano occupato la Crimea, che “de facto” era stata annessa alla Russia. E poi c’era stato il Donbass. “Il virus del nazionalismo” – per usare le parole di Putin – aveva rapidamente contaminato entrambi gli schieramenti. Due popoli che fi no al giorno prima vivevano pacificamente sotto la stessa bandiera si erano ritrovati faccia a faccia con un bel po’ di armi in mano. Gli ucraini ucranofoni puntavano a riprendersi il proprio Paese, gli ucraini russofoni volevano fondarne uno loro. Così erano nate le due Repubbliche fantasma di Donetsk e Lugansk, circondate da trincee e campi minati e perennemente immerse nel magma di una guerra fratricida”.
Teniamo conto che il Donbass era uno dei più grandi poli industriali dell’Unione Sovietica. Qui viveva il celebre Aleksej Grigór’evich Stakhanov, “il minatore che nel 1935 raccolse 102 tonnellate di carbone in 5 ore e 45 minuti, dando vita al movimento stacanovista e guadagnandosi il plauso personale di Stalin. Nemmeno lui ebbe un destino felice: nel 1965, quando gli emissari di Brežnev andarono a cercarlo per festeggiare il trentennale della grande impresa, quello che si trovarono davanti fu un vecchio sporco e cencioso, con la barba malfatta e un insano desiderio di vodka”. Siamo in una terra di gente indurita, di pazzi sognatori, di disperati, di criminali; nello svilupparsi della guerra il comandante degli insorti finì schiantato da un missile, mentre il presidente dell’autoproclamata repubblica di Donetsk fu ucciso da un’autobomba. La domanda che spesso sorge in questi giorni è cosa spinge questa gente a combattere e a farsi ammazzare. Una prima idea può darcela la composizione umana di Donetsk: fan stalinisti, nostalgici dello zar, integralisti ortodossi, fascisti, ultranazionalisti, una congerie di persone che sembra rappresentare tutte le pulsioni ideologiche che quell’humus è in grado di nutrire. Le situazioni che accompagnano tutte le giornate, come sta accadendo oggi, sono i colpi di artiglieria, quelli che non danno il tempo di scappare, che ti stroncano senza che te ne accorgi. E poi: “Armi appoggiate ai muri e ticchettii di tastiere. Bandiere della Novorossia, cartine ed effigi ortodosse. Sulle mappe disegnate dal nuovo esercito costituitosi con le due Repubbliche autoproclamate di Donetsk e Lugansk sono segnati anche gli altri territori da conquistare nella guerra contro l’esercito ucraino: Mariupol, la costa del Mar Nero e Odessa”. Capite? Come quello che sta succedendo oggi, con l’attacco massiccio della Russia di Putin. Erano le prove generali di ciò che si sarebbe concretizzato anni dopo, ma qui in Occidente non ce ne rendevamo conto, perché era una guerra regionale che non ci toccava direttamente ed eravamo presi da tutt’altro. Quelle lotte, quell’uccidersi in guerre territoriali era fra quanto di più estraneo potessimo immaginare. “Cumuli di filo spinato, proiettili esplosi e resti di barricate. Sono le ex postazioni militari nemiche assaltate mesi fa e ridotte a cumuli di rifiuti inceneriti. Prima di sfiorare ogni tipo di gioco geopolitico ciò che si respira è la distruzione della guerra, che sferza le narici attraverso due odori: quello acre di bruciato e quello pungente della merda”. Oggi la dottrina bellica russa è sempre la stessa: non disponendo di armamenti di precisione e delle tecnologie più avanzate, usa l’artiglieria e il bombardamento aereo come nella guerra mondiale di ottant’anni fa.
La cronaca di Sceresini e Giroffi è serrata, intensa, senza fronzoli: è il giornalismo vero che si fa racconto. Il racconto delle persone che vivono e lottano, che fanno la storia reale degli uomini e delle donne, ben diversa dalla Storia costruita per i posteri. E questo giornalismo lo fanno da battitori liberi: “Ci sono i cronisti dei grandi network, pagati e spesati oltre ogni ritegno, che possono permettersi di dormire nei grandi hotel, viaggiare con fixer (autisti e guide, ndr) ultra-professionali da duecento dollari al giorno, andare e venire da Kiev a loro piacimento inseguendo le notizie su e giù per l’Ucraina. E poi ci sono i giornalisti freelance che in genere si accampano tra i letti a castello dell’hotel Econom il cui nome dice già tutto: sei euro a notte. Li vedi assiepati in piccoli capannelli intenti a sparlare dei rispettivi giornali che a detta loro – e a ragione – hanno completamente dimenticato il Donbass e si occupano soltanto di Ebola, di Isis e di problematiche mediorientali”.
L’impatto con Donetsk è quello della città sotto assedio, il prototipo delle città-martire ucraine che vediamo oggi sui media. Anche lì è guerra di artiglierie, prima i cannoni spianano l’obiettivo, poi i soldati si fanno avanti, con i check point che vengono smantellati e spostati quasi quotidianamente. Si vedono giovani semi-fanatici che sembrano giocare alla guerra, veterani logori, muri crivellati, scenari di guerra che accompagnano le giornate di persone che cercano, si spostano, si riparano, leggono il terreno da percorrere e le possibilità da seguire. Un’umanità variegata con le sue storie e le sue idee, spesso confuse, e poi i simboli, i riferimenti, gli obiettivi, gli sforzi per vivere. E le trincee. E le macerie spalate, i massi tolti per recuperare pezzi della propria vita, occhi sgranati di persone che compiono azioni meccaniche. La lettura di questo libro è un atto propedeutico importante per prepararci a ciò che leggeremo quando chi è sul campo dell’invasione russa ne scriverà: già ora, in queste pagine, possiamo renderci conto di quale umanità vi è coinvolta e delle motivazioni che la agitano. Gli interrogativi che ci stanno assalendo in questi giorni, i perché di questa guerra che fatichiamo a concepire erano già incubati qui, in un reportage che oggi si riapre in tutta la sua attualità, facendo parlare gli esseri umani per quello che sono. “Vorremmo chiedere altre informazioni alle persone di questo quartiere: vorremmo sapere dell’intensità dei bombardamenti, dei disagi per la mancanza di gas, acqua ed elettricità, di come hanno vissuto questi ultimi mesi. Vorremmo ma non c’è tempo: i tre miliziani ci ributtano in auto”.
Per rendere l’idea, leggiamone alcuni frammenti. A pagina 73, l’aeroporto di Donetsk. “L’atmosfera è terrificante. Cambia l’odore, i suoni diventano assordanti: a cadenza costante l’aria viene schiaffeggiata dai boati delle esplosioni. Il famigerato palazzo centrale – postazione di comando del battaglione separatista che combatte all’aeroporto – sorge minaccioso davanti a noi. I miliziani ci tengono inizialmente alla larga lasciandoci in attesa nel bel mezzo del cortile, in uno spiazzo aperto che sembra fatto apposta per attirare i colpi di artiglieria. Il loro è un gioco psicologico strano. Da una palazzina in frantumi con vetri smembrati, colorato di bruciature ovunque e costellato di buchi comodi solo per i cecchini, spunta la testa di una signora ancora avvinghiata alla sua veranda”. A pagina 116 la questione rivelatrice, il nocciolo che non si estingue. “È una vecchia storia: quella della rappresentazione del nemico. L’abbiamo vissuta anche noi durante l’ultimo pezzo del nostro viaggio. Scesi dal bus che da Donetsk ci ha portati a Dnepropetrovsk ci è stato chiesto più volte che volto avessero i terroristi nella parte orientale dell’Ucraina ormai controllata dai separatisti. Curiosità assurde, considerando che fino a ieri gli attuali contendenti erano fratelli, concittadini, colleghi e tanto altro. La propaganda fa il suo lavoro, sia da un lato che dall’altro”. Pagina 173, la questione politica. “Pysarenko e i suoi hanno le idee ben chiare. Il Donbass deve essere riconquistato a ogni costo ma per farlo ci vuole l’appoggio deciso di tutte le forze governative. Questione di soldi, di mezzi, di uomini: l’esercito non ce la fa più, diversi reparti hanno smesso di ricevere lo stipendio, i giovani di leva vengono addestrati in tutta fretta e spediti al fronte con le scarpe da ginnastica; armi e munizioni scarseggiano; le diserzioni sono all’ordine del giorno. “Il nostro governo è debole”, si lagna il comandante. “Poroshenko non ha abbastanza palle per imporsi come dovrebbe. Li avete visti tutti quei cialtroni lassù a Kiev? Pensano soltanto ai loro affari, ai loro business. Vogliono fare soldi a palate, vogliono arricchirsi. Se fosse per loro, avremmo già regalato a Putin sia Donetsk che Lugansk. Gliele avremmo servite su un piatto d’argento. Chi è che si mangia la merda? Chi è che va al fronte a morire? Noi militari, mica quelli lì”.
E ancora a pagina 195 siamo di nuovo a Donetsk. “Di quella mattina non riusciremo mai a dimenticare l’odore: il puzzo acre e dolciastro dei cadaveri. La sveglia scatta troppo presto: sappiamo bene cosa sta per accadere ma in fondo non riusciamo a realizzarlo. Non cerchiamo più il brivido del fronte, almeno non per questa mattina. I morti, quelli raccolti nelle fosse da trincee e quelli di civili sotto la polvere di mattoni piovuti da case bombardate, sono tutti ammassati all’obitorio di Donetsk. È proprio lì che siamo diretti. Abbiamo appuntamento col direttore della struttura, il dottor Dimitri Khalashnikov, che da mesi governa quel groviglio di corpi, ossa e pelle, sepolto dalla disumanità della guerra”. Lì c’è il bestiale odore di morte, contrastato accendendo sigarette, dove solo la metà dei corpi viene riconosciuta, perché molti non riescono a raggiungere la struttura oppure non sono informati. Chi ci lavora, che sia medico o inserviente, deve ubriacarsi fin dal mattino. Infine vediamo Lugansk: “A Lugansk sono i russi a farla da padroni. È grazie a loro se la città può ancora resistere e in fondo lo capirebbe anche un bambino – aggiunge – ma ci siamo resi conto di cosa sta succedendo? L’economia è regredita fin quasi al baratto, non ci sono più fabbriche, non c’è più lavoro, non c’è più nulla. Se la gente continua a vivere è solo per merito dei russi: sono loro che mandano il cibo, il gasolio, i vestiti, le sigarette, le armi. Loro comandano, punto e stop”. Naturalmente era stata bombardata anche Mariupol, la città strategica oggi più massacrata dalle artiglierie di Putin. Lì i tetti erano pieni di cecchini che fronteggiavano le prime linee dei separatisti ben armati alle porte della città. E addentrandoci nelle strutture civili, quelle che fanno funzionare l’umanità, scopriamo che l’università di Mariupol è dedicata quasi interamente a una disciplina particolare, le scienze minerarie: “Le balaustre dello scalone principale sono punteggiate di teche contenenti campioni minerari, oltre a immagini di cave e tunnel sotterranei”. L’Ucraina come miniera, come granaio, come gente che lavora. Pronta, allo stesso modo, a combattere.