Le recensioni bisogna scriverle se non si è fan. Le recensioni bisogna produrle con immensa freddezza, con distacco dolce, rispettoso disinteresse. Niccolò Contessa è tornato e a noi, ipoteticamente, non ce ne frega nulla. Siamo lontani dall’indie - qualunque cosa significhi ancora oggi - dal Pigneto, dalla cultura hipster che ha reso i cani (scrivetelo tutto minuscolo) il progetto più esasperatamente cool e sfacciatamente underground degli anni 10. E c’è chi direbbe che noi non-fan, noi disinteressati siamo i cronisti più lucidi, proprio per questo i più attendibili, in un marasma di asettici comunicati stampa (siamo certi oramai li produca l’Ai, e grazie al cielo) e di nostalgici gridi al miracolo. Come suona allora, ai lobi di un cronista imparziale, questo Niccolò Contessa redivivo dopo nove anni di silenzio? Suona bene! C’è bisogno di dire altro? Sfortunatamente sì.

Questa recensione, in clima di anacronistico fermento civile che spesso si dimentica della musica, possiamo dire che è scritta anche per loro. Come suona Contessa? post mortem è di certo un passo avanti rispetto al sound che ha reso I Cani quello che sono, ovvero loro malgrado un progetto che piaceva e non piaceva perché rappresentava la post-adolescenza, che scriveva canzoni da nuovo millennio. Lì dove ad esempio un ascoltatore poco immerso nel famigerato ambiente indie avrebbe storto il naso, al suonare dell’inno Lexotan e in generale dei primi lavori, in post mortem è evidente uno sforzo maggiore, se fossimo gentili diremmo addirittura autoriale, nel suonare come musicisti prima che meditabondi filosofi generazionali. Lo rileviamo soprattutto e paradossalmente - in assenza di testo - dalla strumentale title track post mortem, affresco di sintetizzatori spettrali in atmosfera da cattedrale, condensati un minuto e cinquantacinque di ciò che probabilmente voleva essere un interludio, e agisce come tale, anzi come preludio al riuscito risultato di felice, traccia che segue e in cui aleggia più o meno a suo agio il fantasma vocale di Franco Battiato.
Contessa, in ogni caso, ha le idee molto chiare, e noi ne siamo, non ironicamente, felici: i riferimenti musicali di queste canzoni - perché si tratta pur sempre canzoni pop, incentrate sull’alternanza strofa- ritornello e sulle le più codificate convenzioni della musica leggera, abilmente mascherate in un qualcosa di più - rimandano alla new wave, al punk rock, al lo-fi, a un certo pop di maniera e alle recenti furbate adottate da molti cantautori per aggiornarsi allo scorrere del tempo, per suonare più contemporanei. Contessa non ne è esente, le maschera solo meglio degli altri. Due trovate su tutte: le chitarre (impastate o simulate dai synth poco importa), le benedette e maledette chitarre noise, con i medi sparati, le chitarre con la distorsione scorreggiona, zanzarosa, artificiale - insomma avete capito - che suonano allo stesso modo in ogni disco rock più o meno intelligente degli ultimi dieci anni, un semi-tributo all’industrial; l’altra è la voce un po’ satura, un po’ compressa e un po’ - diciamocelo - a tratti disinteressata, come se ascoltassimo qualcuno che ci canta nenie di capitalismo e modernità da una stanza semichiusa vicino a noi. Sono mode - sfruttate nei recenti e migliori esiti del pop da Gaz Coombes e St. Vincent, e in Italia da Laszlo De Simone e Post Nebbia -, semplici trend di arrangiamento divenuti norma da quando la musica si scrive si arrangia e si registra per lo più con i plug-in e Ableton, fa del suo essere artificiale una prerogativa estetica e la sfrutta con intelligenza. E infatti Contessa diceva di voler fare non altro che “punk col computer”. Ci è riuscito, l’ha fatto meglio degli altri, l’ha reso addirittura pop. Che poi il nuovo lavoro dei Cani non spicchi in originalità poco importa - come è stato detto recentemente a proposito di un noto romanziere - perché è possibile essere non originali a modo proprio, e lo stesso Contessa ne pare consapevole quando canta:
«Nella parte del mondo in cui sono nato, in cui sono nato Tutto è già stato detto
Tutto è già stato pensato
Nella parte del mondo in cui sono nato [...]
Tutto è già stato fatto
Tutto è già stato creato».

