Ci hanno sempre fatto credere che la musica dovesse scegliere da che parte stare. O si passa una vita a studiare armonia, analisi formale, contrappunto e tutto il resto, oppure si suona nei club, si carica su Spotify, si naviga tra i beat e chi ascolta senza troppe domande. Da una parte la testa, dall’altra la pancia. I custodi del pentagramma guardano al mainstream dall’alto, come se bastassero un beat figo e due rime a caso per chiamarla musica. Chi viene dal pop o dal rap vede l’accademia come un covo di frustrazione e vecchiume, dove ci si esercita per impressionare altri come te, ma nessuno ti ascolta davvero. Due mondi che non si parlano, come se mischiarsi fosse perdere qualcosa. È proprio in questo spazio che si colloca Notturno, il nuovo progetto degli Studio Murena. Un titolo che richiama la tradizione classica — certo — ma che funziona soprattutto come stato d’animo: il notturno come tempo sospeso, luogo mentale, zona di transizione. È uno spazio dove tutto può emergere: l’urgenza, la fragilità, l’analisi, l’istinto. Un territorio in cui le regole del giorno saltano, e i codici possono mischiarsi. A dare la prima chiave di lettura è Jazzhighlanders, il manifesto sonoro del progetto. Un brano che racchiude in sé l’intenzione del disco: non un esercizio di intellettualismo fine a sé stesso, ma un ponte vero tra mondi. È un cavalcavia tra la musica colta e il mainstream, costruito con cura nei dettagli musicali e una visione sonora chiara. La chitarra si muove su Ab lidio, Fm9 e Dm9 nella strofa, suggerendo già lo sfondo armonico modale che accompagnerà gran parte del lavoro. C’è complessità ritmica, interplay tra strumenti, una chiusura che sa di musica suonata, vissuta. Ma accanto a tutto questo, c’è anche l’elettronica: il noise iniziale, le texture, il synth tematico del ritornello — tutto si fonde nel racconto sonoro con naturalezza, senza forzature.

Jazzhighlanders non è sterile intellettualismo. Il ritornello arriva forte, riconoscibile: Notturno attinge dalla canzone e dai suoi elementi strutturali — strofe, ponti, hook. Ed è forse proprio questa la chiave per cui l’intero lavoro riesce a farsi ascoltare anche da chi non ha mai letto una partitura, senza rinunciare a niente. Armonia, ritmo, forma e contaminazione di genere: sono questi i pilastri su cui poggia tutto, tenuti insieme da una scrittura che non cerca di spiegarsi — funziona e basta. È musica che conosce i codici, ma non li subisce. Li rimonta, li attraversa e li mette al servizio di qualcosa che vuole arrivare, ma non si abbassa mai. Il lavoro mantiene questa tensione lungo tutta la tracklist, modulando anche la complessità musicale a seconda dei temi trattati.
Ci sono pezzi come Oskar Kokoschka, con armonie più spigolose, soli di sax e tromba, e una scrittura strumentale perfetta per chi trova godimento nella complessità accademica — che supportano testi impegnati come: “sono il bianco e nero di un paese senza futuro”. Dall’altra parte, brani come Vienna Song o Vai Via attingono a piene mani dall’indie pop e dall’urban, con strofe rappate ma melodiche e ritornelli super cantabili (“sento il batticuore in una love story”), e hanno tutte le carte in regola per diventare hit mainstream, senza rinunciare alla ricerca. E qui si capisce la forza vera del progetto: una proposta capace di aprirsi a più sfumature di pubblico e di generazioni. Parla a chi ama l’intellettualismo e vuole perdersi nell’armonia, nei soli, nella parte strumentale — ma anche a chi ha bisogno di vibrare subito, senza passare dal manuale. Due approcci che spesso si tengono alla larga, ma qui confluiscono in un unico binario. E funzionano. È un lavoro che crea ponti, che fa ricerca e lancia un messaggio preciso: non esiste un modo giusto di fare musica, e rimanere nella bolla — da una parte o dall’altra — è l’unico vero modo di perdere qualcosa.
