Accettare di scrivere una recensione su un album di un amico, già è qualcosa di estremamente delicato. Ma quando poi, nella cartella di presentazione, leggi che probabilmente sarà l’ultimo, allora ci vogliono i guanti di velluto e forse ingoiare la saliva qualche volta in più. “Tutto”, questo il titolo che Eugenio Finardi ha scelto, e dopo che lo senti capisci che è proprio così: all’interno potete trovare le fotografie della sua esistenza guardate da una prospettiva apparentemente senza tempo. Per tutti noi le canzoni sono istantanee di momenti e angoli nascosti che ritraggono una parte della nostra vita, per questo sono molto migliori di noi in quanto esseri umani. Il tempo è il grande protagonista di questo viaggio del Prima, Ora e Dopo in cui ci guida Finardi come un Virgilio del nostro tempo, facendoci notare i particolare che noi, distratti dal vivere, abbiamo dimenticato lungo il cammino. L’aspetto più affascinante che ho trovato in questo album è la tracklist, che riflette il concepimento di “Tutto”: ogni canzone porta in pancia una parte dell’idea della precedente, come una sorta di Blockchain cantautoriale.

Il sipario si apre con “Futuro”, dove un vestito di musica elettronica, che ha qualche rimembranza di un Franco Battiato dei più giocosi ma intelligenti, abbraccia le righe di un testo pregno. Se prima la distanza culturale-classista della provincia portava l’autore ad implorare un extraterrestre di portarlo su un pianeta su cui ricominciare da zero, ora si getta in una speranza verso un domani dominato da una tecnologia che possa far sì che le persone, finalmente, si comprendano e tutte assieme condividano l’unico bene superiore: l’Amore. Questa canzone riflette molto sull’uomo Finardi che, con gli occhi di un bambino, come pochi artisti hanno ancora, guarda il futuro con una indomita speranza. Il brano successivo richiama musicalmente più i primi anni della sua carriera, dove le cose erano più semplici, quando contavano soprattutto le canzoni e i loro significati. Le idee hanno permesso che ci si potesse librare in cielo, anche se questi sogni erano l’unica ricchezza che c’era. Esisteva una legge fisica che regolava i voli di queste idee, ma in fondo quale uccello si è mai chiesto come faccia a volare? Come un cartello di pericolo, però, dice: attenzione a non diventare schiavi delle proprie idee, altrimenti si corre il rischio di scambiare il volo per una fuga. Come canta in "Tanto tempo fa", quando i temi della canzone precedente prendono forma, diventando scoperta della vita ed esperienze reali scandite da questo rock elettronico fresco. La musica, sapientemente guidata dal chitarrista Giuvazza, riflette la freschezza dei vent’anni, la voglia di costruire un mondo nuovo, migliore, che purtroppo a volte si era schiantato nelle droghe materiali e nella rincorsa di ideali inafferrabili che hanno distrutto gli stessi interpreti. La Verità, in quanto tale, non esiste. Esistono le persone.

Con “La Battaglia”, dove ora la chitarra acustica annuncia un momento interiore molto profondo, il viaggio rallenta e incontra l’essenza. L’arrangiamento si tinge di suoni elettronici che sembrano provenire dall’infinito e sottolinea quello che appare essere il Tao della genitorialità: il padre che “fai tutto quel che puoi” perché poi “ti lasci”. L’amore incommensurabile che ha in sé anche una grande tristezza, ma che torna nuovamente a rigettarsi nell’Amore. Un genitore a esaurire ogni risorsa si risolve nel primo “volo” di un figlio che diventa protagonista della sua vita in modo libero e tu, guardandolo andarsene, pensi: “Hai vinto”. In “Francesca Sogna” ft. Pixel, “per gli amici Franca”, è una figlia che Eugenio presenta al suo mondo musicale abbracciandola per tutta una canzone, e le spiega che il suo senso di smarrimento va bene. Non c’è niente di innaturale nel non sapere dove andare, cosa fare, chi amare, che sogno scegliere: hai vent’anni. Arriva lei, con la sua voce giovane, che accostata al vocione del padre rende perfettamente la distanza temporale. Ha un timbro pieno di sfumature, un po’ dolcemente insicura ma fiera, proprio così come la vuole il suo papà e, forse, proprio come sta iniziando ad accettare se stessa. Francesca alla ricerca della direzione della sua vita che tiene già in mano. Prosegue con “La mano di uno che sa”. Adesso la musica ipnotica del brano rimbalza nelle orecchie creando una certa tensione, si risolve in ritornelli più dritti ma comunque con un’inquietudine di fondo. Sembra che Eugenio voglia preparare lo zaino per il viaggio di Francesca, e così lo riempie anche di avvertimenti (per bocca di uno che ne ha avuti altri in precedenza) tra cui l’inevitabile assenza sua futura, la vita è imprevedibile e anche quando senti di essere arrivato, in realtà è meglio tenere i piedi a terra, anche se sembra che gli altri volino più in alto, perché non sempre è così. Ancora, con “Onde di Probabilità” la musica allarmante prende una sfumatura più lenta e più contorta, il ragionamento si sposta sul parallelismo tra vita e fisica quantistica, dove la filosofia anticipa i concetti matematici e prova a dargli un corpo fallendo, poi, nel tentativo di farlo afferrare a noi esseri finiti.

In “I venti della luna” l’arrangiamento si scrolla di dosso l’intorpidimento del pensiero pesante precedente, che finisce per pensare se stesso. Con rime interne e finali torna il ritmo della freschezza e della speranza. Bob Dylan, grande faro della giovinezza degli immensi cantautori, fa capolino in una canzone che parla della spinta che si incontra durante il percorso. Possono essere venti di speranza, di vita ma anche di guerre e sfortuna. Perché in fondo, il vento che ci fa sentire vivi, che ci porta messaggi e musiche per quanto sia bello e di ispirazione, sulla Luna non si può sentire perché la vita è qui e va affrontata così com’è. “Massiccio attacco di panico” continua a parlare di prospettive future, ma ritorna spesso precipitando alla realtà e questo moto continuo di andare con il pensiero e poi imbattersi nell’immanente suscita un senso di danza in cui appare coinvolto tutto l’universo. Con “Pentitevi” ci avviamo al finale del disco, e si parla appunto di fine. Partendo sempre dai ricordi antichi di Eugenio, questi ultimi si trasformano in esperienze di vita che non si comprende bene se siano reali o immaginarie, ma portano con sé la concezione di avere una possibilità di redenzione. La vita, però, non è fatta di pentimenti e redenzioni, quindi nel finale questa ironia si percepisce maggiormente come un’esortazione a vivere la propria vita accettandone anche gli errori. “La facoltà dello stupore”, in conclusione, è una canzone che apparentemente parla del suo percorso con la persona speciale che lo ha accompagnato in questo tratto di vita. Si parte dall’indecisione se provare a scrivere qualcosa che le piacerà nuovamente, a quei particolari fisici che fanno sì che lui la riconosca in mezzo a miliardi di altri esseri umani (lo sguardo, l’odore, il suo corpo la prima volta che lo sfiora…). E con tutto l’amore che un uomo può avere dentro di sé, le dice: camminiamo insieme verso questo orizzonte, che non importa se è un finale, perché per noi non lo sarà mai. Di Eugenio Finardi si possono dire molte, moltissime cose, e io non voglio aggiungere altro che un aneddoto: un giorno, poco tempo fa, ci incontrammo a un concerto dove eravamo ospiti entrambi e lui, con il suo solito sorriso ironico, mi disse: “Sai Alberto, mi sono stancato di fare Eugenio Finardi”. Da questo disco non sembra. E meno male che sa raccontare ancora qualche bugia.
