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Abbiamo letto “Alla corte di mio padre” di Isaac B. Singer: ecco perché schierarsi pro o contro Israele e palestinesi è soltanto una moda. E dov’è finita l’opinione pubblica (sostituita dall’odio privato)?

  • di Jacopo Tona Jacopo Tona

9 dicembre 2024

Abbiamo letto “Alla corte di mio padre” di Isaac B. Singer: ecco perché schierarsi pro o contro Israele e palestinesi è soltanto una moda. E dov’è finita l’opinione pubblica (sostituita dall’odio privato)?
Quartiere ebraico di Varsavia, inizi del 1900. Isaac Bashevis Singer racconta storie e persone che affollavano la corte rabbinica di suo padre. Il popolo, con la p maiuscola, esisteva ancora, ma soprattutto c'era ancora un elemento oggi scomparso: il dialogo. Chi oggi vorrebbe cancellare Israele e la sua cultura dalla faccia della terra dovrebbe rileggere questo libro

di Jacopo Tona Jacopo Tona

Alla corte di mio padre è una raccolta di racconti scritti da Isaac Bashevis Singer, uscita per la prima volta nel 1966 e riedita da Adelphi nel 2024. Sono storie, lo si evince letteralmente dal titolo, che parlano della sua infanzia passata in uno dei luoghi che qualche anno più in là diventerà uno dei maggiori teatri tragici del 900: il quartiere ebraico di Varsavia, in Polonia. Via Krochmalna, per la precisione. La si trova ancora sulle mappe anche se, come gran parte del centro della capitale polacca, gli edifici sono per la maggior parte ricostruiti da zero dopo le devastazioni della furia nazista. Singer ci ha vissuto a partire dal 1908 fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, e questa raccolta di racconti restituisce in maniera magistrale l'atmosfera sovraffollata, povera e antica della vita in quell'angolo di Est Europa, prima che venisse smembrato dalla Seconda Guerra Monidale e dal patto Ribbentropp-Molotov, che lo lasciò in balia dei carrarmati tedeschi. Il padre di Isaac era un rabbino, e questo ruolo permetteva al piccolo scrittore di poter osservare dal centro tutta la comunità ebraica di Varsavia: personaggi, episodi, i processi rabbinici chiamati Din Torah che sono ricorrenti nelle storie, gli uomini e le donne che andavano dal ministro per un consiglio, una confessione. Alla corte di mio padre è un libro di memorie, realista, come può esserlo la fantasiosa mente di un bambino.

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La copertina
La copertina

Come spiega lo stesso autore in una nota introduttiva, la corte rabbinica che dà il nome al libro, il Bet Din “era una specie di connubio fra tribunale, sinagoga, casa di studio e, se vogliamo, lettino dello psicoanalista, dove chi aveva l’animo turbato poteva venire a sfogarsi”. Questo è il contesto, l'ambientazione precisa delle storie raccontate da Singer: la rete sociale, prima che questa diventasse sinonimo di isolamento tecnologico. La comunità fatta di persone che si ritrovavano dentro a un appartamento per risolvere i loro problemi, semplicemente parlandone finché non si riusciva ad arrivare a una soluzione. Qualsiasi problema, come si vede dai racconti: anziani che divorziano, oche morte che parlano, venditori delle proprie quote di vita ultraterrena e il popolo, quello che aveva ancora un nome e che si poteva chiamare tale. Racconti di vita popolare, di confronto, in cui tutto è un dialogo: anche le parti in cui non si parla, anche le solitudini. Senza vagheggiare un mondo perduto, che la censura del contemporaneo lo proibisce, ma la gran differenza con la nostra quotidianità forse è proprio questa, ed è una conseguenza dei mezzi che utilizziamo per comunicare: le affermazioni hanno sostituito il dialogo. Basta farsi un giro sui social per rendersene conto, ed è per questo che fa soltanto bene leggere un libro come quello di Isaac B. Singer. Ma torniamo alla corte.

Una foto del quartiere ebraico di Varsavia scattata da Roman Vishniak
Una foto del quartiere ebraico di Varsavia scattata da Roman Vishniak

“Il suo concetto fondante è che non può esistere giustizia senza religiosità, e che la migliore sentenza è quella che viene accettata da tutte le parti in causa, di buon grado e fiducia nel potere divino. Il contrario del Bet Din sono tutte le istituzioni, di destra come di sinistra, che fanno uso della forza”, così viene descritta la corte rabbinica, da Singer stesso. Il dialogo, dicevamo, finché non si arriva a un punto in cui si è tutti d'accordo. Ragionandoci insieme, senza usare la forza. Non c'è un re, nella corte rabbinica, se non la mediazione del buon senso, e i personaggi che la frequentano hanno tutti, in qualche maniera, la consapevolezza che è soltanto a livello sociale che si possono risolvere i problemi individuali: il maggior aiuto lo si trova nella condivisione, e non in una soluzione piombata dall'alto o da un altrove, come può essere oggi Google. Nessuno è un oracolo: né il testo sacro, né il rabbino che lo interpreta, né il divino stesso. Nemmeno il motore di ricerca, anche se ci si avvicina. Oggi che Israele è diventato uno dei tanti, troppi termini intorno ai quali ci si sente in dovere di alzare una barricata, santificando o demonizzando, proiettarsi nel mondo descritto da Isaac B Singer non può fare altro che bene al cervello. Lo scrittore, nella prefazione, auspicava che i tribunali del futuro sarebbero stati simili al Bet Din, ma non aveva previsto i social network. Finché continueranno a mancare il dialogo e il confronto tra le idee, l'opinione pubblica sarà soltanto odio privato. Pro o contro, ognuno segregato nella propria ottusa ostinazione. La Varsavia ebraica di Singer era affollata di “Venditrici di oche che inventavano parole e similitudini e modificavano le maledizioni a seconda del periodo dell’anno”: oggi sono rimaste solo le maledizioni. O le mode, che poi è lo stesso.

Varsavia ai tempi dell'infanzia di Singer
Varsavia ai tempi dell'infanzia di Singer

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