I giornalisti che scrivono biografie rischiano la penna (è sulla breve distanza che, almeno nella tradizione italiana, danno il meglio). I ministri che scrivono biografie, invece, non rischiano niente: il fatto stesso di aver accettato di fare il ministro evita loro l’impegno a essere bravi scrittori. Leggendo la biografia su Donald Trump di Gennaro Sangiuliano, abbiamo sentito un po’ la mancanza per il suo operato al dicastero per la Cultura italiano. Una delle grandi sfortune di essersi laureati in teoria della biografia è avere sostanzialmente due idee di come si debbano scrivere buone biografie: le biografie storiche, come quella di Churchill dello storico Andrew Roberts, o filosofiche, come quella di Wittgenstein di Ray Monk (e la via di mezzo, sempre di Ray Monk, dedicata alla vita di Oppenheimer); o le biografie romanzate, come Open o Spare, entrambe di J. R. Moehringer – per la prima ha anche vinto un Pulitzer. Nelle prime servono le note, tante, e serve molto contesto. Nella seconda serve lo stile e, possibilmente, il talento (pensate a Paul Auster che scrive mille pagine su Stephen Crane, o le mille di Blake Bailey su Philip Roth). E dire che su Trump se ne potrebbero dire tantissime. Poi ci sono i saggi giornalistici, inchieste o meno, che però non sono biografie. Per quelle serve l’archivio, la pazienza e, possibilmente, non perdere la penna di cui si diceva prima. Un esempio: Bob Woodward, due volte premio Pulitzer (per il Watergate e per i reportage sull’11 settembre), ha dedicato uno dei suoi più recenti saggi alla presidenza Trump. Lo ha intitolato Paura (in Italia è stato pubblicato da Solferino, che ora ha fatto uscire il nuovo libro del giornalista, War).
Se avete la fortuna di leggere Woodward prima di Sangiuliano, del secondo leggereste, forse, tre pagine. Se avete la sfortuna di leggere per lavoro, invece, vi consiglio di prendere in mano prima il Trump di Sangiuliano (uscito nel 2017, poi in edizione economica nel 2020 e ora forse aggiornato con un sottotitolo meloniano: “La rivincita”), poi Woodward. O andare avanti sarà pressoché impossibile. Il problema della biografia di Trump scritta da Sangiuliano potremmo definirlo così: dilettantismo nella scrittura. Sangiuliano sembra poco interessato a scrivere bene e, in fondo, anche poco interessato a scrivere una biografia. È un’agiografia scheletrica e superficiale, con riferimenti a fatti, dichiarazioni e eventi spesso non citati in fondo al libro. Nella biografia di Sangiuliano la critica dei media a Trump diventa odio insensato e spesso gratuito. Confonde una tendenza progressista (la stessa notata da Jill Abrams) a usare Trump come “key” con una sorta di persecuzione giornalistica. Quasi fosse inconcepibile per Sangiuliano che i giornalisti si impegnassero a criticare tutti i passi falsi del leader del Paese più importante del mondo. Ci si può chiedere se il giornalismo abbia fatto un buon servizio all’opposizione di Trump, o se abbia contribuito a farlo vincere una prima volta e – ora – una seconda. Ma difficile definire autori e autrici del calibro di Anne Applebaum semplicemente “fissate” con Trump. Il punto è che in fondo uno scrittore, quando scrive, si scopre sempre, trova la sua voce, il suo punto di vista. Sangiuliano invece applica alla vita di Trump lo stesso metro di misura preconcetto utilizzato dall’establishment di destra in Italia: il piagnisteo, uguale e contrario al tanto detestato vittimismo woke. Ma far passare da perseguitato Trump è un esercizio ucronico che, in assenza di talento letterario, purtroppo non riesce a Sangiuliano.